Tu domini. Ma io riequilibrerò il tuo dire, con opposto dire. Ho facoltà sovrane,
in questo. Attento. L’esistenza mia è devota all’Obliquo: non a te. E l’ombra
di Creonte non mi copre. Ascolta, m’hai chiamato cieco, m’hai deriso. Tu, tu occhispalancati non vedi in che bassezza sei, a chi ti leghi, in quale cerchia vivi. Ma sai le tue radici? Non hai mai capito: tu sei nausea, per i tuoi, giù nell’abisso e qui nel mondo. Coppia di frustate nere, laceranti, da tua madre, da tuo padre, incubo di piedi, ti sferzerà lontano dalla terra, occhi dritti, oggi, domani neri d’ombra. L’ululo tuo, dove non s’ancorerà? Ci sarà un Citerone senza riverbero di voci, quando decifrerai – è l’ora – l’inno delle nozze, rotta a questo falso porto della casa? Ed era rotta buona, prima. Non percepisci armata d’altre colpe pari a quel coincidere tuo con te stesso, e con i figli tuoi. Sputa veleno su Creonte, e sul mio dire. Sarai stritolato. Disperazione unica, la tua, nel mondo.
DUE PAROLE
Nonostante la mia traballante (anzi, completamente inesistente) cultura classica, ho deciso di affacciarmi ad un testo che bramavo da parecchi anni, venendone ricompensato in maniera inappagabile. La vicenda è ben nota: Edipo, re di Tebe, viene a scoprire l’orrenda verità sulla sua esistenza nel giro di una sola giornata. È una realtà insostenibile. Patricida incestuoso uccise suo padre, Laio, in seguito a un alterco lungo un crocevia. Cresciuto fin da neonato da un’altra famiglia poiché trovato abbandonato nel bosco appeso ad un albero per i garretti, giunse poi a divenire re di Tebe, dove prese come sposa e amante la vedova di Laio, Giocasta, sua vera madre. Ignaro delle sue azioni, ma segnato inevitabilmente dalle profezie, Edipo arriva a conoscere l’atroce verità ricostruendo i racconti delle persone lui più fidate. Al netto di uno stile narrativo indecifrabile, giunto fino a noi dopo migliaia di anni e trascrizioni, rimangono la profondità, l’originalità e la forza narrativa devastante della vicenda. La potenza della storia di Edipo sta proprio negli accadimenti e in un simbolismo che racchiude talmente tanti livelli di analisi da risultare raro, puro ed affascinante al pari di un diamante nequitoso.
Vi è, innanzi tutto, un’aurea di mistica incomprensione degli accadimenti. Un processo che, parecchi anni più tardi, soltanto un altro grande gigante della letteratura riuscì a rendere con ugual potenza; ovvero Kafka. L’incompreso piomba sulla testa del protagonista come pioggia estiva. Dal giorno alla notte la vita di Edipo è rivoltata, rivoluzionata, fatta a pezzi, distrutta e cambiata per sempre. All’opposto e definitivamente. La stessa cecità che si autoimpone è volutamente perenne, poiché le radici della vicenda sono talmente profonde da non concedere l’ausilio della sutura del tempo. Edipo si trova in un incubo a occhi aperti che mina la reputazione dei suoi più cari affetti e persino la sua statura morale. Da Re osannato a reietto. Da figlio in cerca di onore ad assassino. Da madre a puttana. Da amico a presunto delatore. Da oracolo a bugiardo. La malattia di Edipo contagia anche i suoi cari, i suoi amici, i suoi conoscenti. Le figlie, che abbandonerà per cercare l’esilio finale, saranno lasciate con macchia e vergogna. La madre sposa morta impiccata. La stessa Tebe ancor più destabilizzata che dalla pestilenza che l’attanagliava. È un capovolgimento dei ruoli che coinvolge tutti e che porta i personaggi ai loro antipodi.
Egli ovviamente –sugli altri- è ancor più vittima che colpevole (Il suo abbandono infatti fu voluto dalla madre Giocasta, spaventata dalla profezia), ma la bellezza del racconto è proprio questa: porgere sullo stesso piano la colpevolezza con la mera esistenza. Come se il reato più grave fosse l’essere, e non l’agire. Si mette in discussione l’esistenza, la piccolezza umana e il rapporto di quest’ultima con la grandezza delle divinità, del fato (dell’Universo o della scienza, diremmo ora, ma anche con il libero arbitrio).
La verità è semplicemente insostenibile. Edipo, una volta compresa tutta la portata, rifiuta di sostenerla e, volontariamente, si cava gli occhi. La punizione non basta; c’è anche un retrogusto metaforico sulla nostra incapacità di osservazione. Non possiamo e non vogliamo vedere. Ma la predestinazione si compie ugualmente e sebbene ci si possa sempre rifiutare di osservare, la nostra coscienza è ben consapevole della tragedia in atto. Come bambini ci copriamo gli occhi per pensarci invisibili, mentre là fuori (poco fuori di noi) tutto è rovina e marcescenza. Maturando, sviluppandoci, siamo costretti a sporcarci le mani e, anche sì, a comprendere. La comprensione è voluttuosa, impura. È peccato, è eros, è pornografia: è incesto.
L’incapacità di guardare la realtà deriva dal dolore della scoperta. Anche in questo caso L’Edipo anticipa di millenni temi assai cari alla letteratura moderna. Si pensi all’empirismo, o al Leopardi, a quel modo di percepire il mondo attraverso il dolore, quel modo di giustificare la vita attraverso la sofferenza. Scoprire fa male, un male fisico e profondo. Scoprire ferisce, di ferite incurabili. Di grandissima importanza è infatti l’insinuazione del dubbio, che non a caso viene portata dai personaggi più cari a Edipo (o a noi stessi). In quasi tutti i casi essi rifiutano di rivelare la realtà ad Edipo in una sorta di tutela, ma la condanna è soltanto procrastinata. Anch’essi soffrono della stessa malattia: il desiderio stupido di non voler scoprire, di non volere rivelare ciò che già appare così chiaramente agli occhi di tutti.
E ancor, la ciclicità, il cervellotico attorcigliamento dentro noi stessi. Edipo insegue e ricerca ferocemente l’assassino del suo genitore, senza sapere di esserlo. È una ricerca curva e involuta che, sempre, si piega infine dentro la nostra figura. La necessità di iniziare dall’interno, dal vuoto che ci riempie. La presa di coscienza, la realizzazione dell’io. Eravamo già all’esistenzialismo?
Reietti e reprobi. Esseri vili, umani.
E infine il senso temporale, generico, legato al nostro percorso nella storia come umanità, come razza. L’attorcigliarsi della nostra evoluzione, un figlio che genera figli dalla stessa madre è una rottura temporale, una mancanza di linearità nella catena evolutiva umana, uno srotolìo implacabile, nonostante le brutture e gli incesti, nonostante i riccioli temporali, l’interdizione degli dei, le previsioni, le malefatte, le bassezze e le incertezze. È un piccolo groviglio nel lungo tappeto eterno del tempo, una falla nella pura simmetria degli alberi genealogici, in ciò che noi chiamiamo (non a caso) discendenza (dal divino al gretto).
Edipo è una tragedia. La tragedia.