
Il maggio pregio di questo libro non risiede tanto nel suo stile letterario, e neppure nella quantità ovvero utilità delle notizie contenute, quanto nella sua assoluta veridicità. Le sue pagine contengono la cronaca di eventi realmente accaduti che mi sono appena limitato a colorire, e senza richiedere il minimo sovrapprezzo. George, Harris e Montmorency non sono ideali poetici, ma esseri in carne ed ossa… in particolare George, con i suoi dodici stone di peso. Altri libri potranno eccellere al confronto per profondità di pensiero e conoscenza della natura umana; altri potranno surclassarlo per originalità e mole; ma nessuno mai potrà superarlo per incurabile nonché irrimediabile sincerità. Più di ogni altra attrattiva sarà questa (o almeno così si auspica) a renderlo prezioso agli occhi dell’avido lettore e aumenterà il peso della morale che qui si narra.
DUE PAROLE
Ricevetti una copia di “tre uomini in barca” che ero sì e no adolescente, gentile presente di uno dei migliori amici di mio padre. Troppo giovane per la lettura, accantonai il regalo per anni e il testo finì dimenticato su qualche mensola della casa dei miei genitori. È così che, qualche settimana fa, quando ho rivisto la copia in libreria, mi sono deciso a comprarla nuovamente e leggerla in seduta stante. Come spesso accade nella vita, le opere trovano significato posteriore dopo aver accumulato sufficiente esperienza, e un libro che così tanto dipinge e racconta l’Inghilterra e, concedetemi il termine, “l’inghilterrità” e che si riveli inoltre una mancata profezia per quello che poi sarebbe stato il mio trascorso in albione, non può far altro che trovare candido posto nel mio cuore. Sarò sincero, non reputo il testo un capolavoro, ma ci sono una miriade di piccole e grandi cose per cui ora il testo mi risulta caro. Si narra una vicenda molto semplice: il viaggio di tre uomini e un cane lungo il Tamigi. Niente di più. Il romanzo viene costruito soltanto su due perni: l’umorismo e l’aneddotica. Già dall’incipit che riporto in calce, si notano entrambe le ferree volontà dell’autore. Ci si presenta con uno “statement” decisamente fasullo (ovvero quello della veridicità, dato che Jerome andò sì in viaggio sul Tamigi, ma per portare la consorte appena sposata e non sicuramente i suoi migliori compagni) e si percepisce l’humor inglese, il deadpan anglosassone. Si pensi anche semplicemente al titolo: tre uomini in barca, per non parlare del cane. L’abilità di Jerome è di costruire un castello d’ironie mantenendo al contempo un enorme contegno morale. Certo, si tratta di un umorismo adatto a un secolo fa, ma per l’appunto scevro da volgarità, bassure, cadute di stile. È un umorismo leggero, ma che necessità intelligenza per comprenderlo. Che ridicolizza i protagonisti e non il prossimo. Una goffaggine spirituale che nasconde bontà d’animo e purezza d’intenti. I tre uomini sono infatti dei bighelloni, e lo sviluppo del racconto procede infatti per narrazione delle bazzecole in cui gli stessi si sono avventurati. Il secondo “pretesto” del racconto, è invece storico e d’appartenenza culturale. Il romanzo fu presentato infatti con il titolo originale di nientepopodimeno che “Storia del Tamigi”, un vero e proprio elogio la Thames, antonomasia londinese e della stessa Inghilterra. Insolito, per un personaggio così goffo, snocciolare aneddoti culturali che giungono sino alla dominazione romana della terra.
La cosa però che più è riuscita e più è risultata di gradimento al sottoscritto è la simbiosi fra fiume e narrazione. Tutto il testo infatti non è altro che un continuo gioco, o andamento, fra la divagazione, le canzoni, la musica e la fruizione del flusso del racconto, al ritorno sulla solida sponda della narrazione cronistica. Si inizia un capitolo, si nota qualcosa, ci si scosta nel campo del racconto e si torna prontamente a riva con la narrazione del presente fluviale. Il fiume è, oltre che cornice idilliaca, territorio e metafora perfetta del testo. Il romanzo è, oltre che svago prediletto, un sommo monito a una vita che, a tutti gli effetti, non fa altro che condurci e poi riportarci dal finire alla deriva.