Jonathan Franzen – Purity

Vuoi sapere la mia teoria dei segreti? – Ho un’alternativa? – La mia teoria è che l’identità consiste di due imperativi contraddittori. – Okay. – C’è l’imperativo di tenere i segreti, e c’è l’imperativo di rivelarli. Come fai a sapere che sei un individuo, distinto dagli altri? Tacendo certe cose. Custodendole dentro di te, perché, se non lo fai, perdi ogni distinzione fra dentro e fuori. I segreti sono quel che ti permette di sapere che dentro di te c’è qualcosa. Un esibizionista integrale è una persona che ha perso la sua identità. Ma l’identità nel vuoto non ha alcun senso. Prima o poi, quello che hai dentro avrà bisogno di un testimone. Altrimenti saresti una mucca, un gatto, una pietra, un oggetto intrappolato nella propria oggettività. Per avere un’identità, devi credere che esistano anche altre identità. Devi sentirti vicino agli altri. E come si crea questa vicinanza? Condividendo segreti. Colleen conosce la tua opinione segreta su Willow. Tu conosci la sua opinione segreta su Flor. La tua identità esiste all’intersezione di queste linee di fiducia. Ha senso quello che dico?

DUE PAROLE

Ennesima prova narrativa imperiale di Franzen, che si conferma uno scrittore di riferimento nel panorama letterario moderno. Romanzo di ambientazione e stile leggermente diverso dai precedenti che ho letto, in Purity l’autore si spinge in un racconto quasi mitologico per l’ingombro che il destino dei personaggi impone alle loro vite. È ovviamente una caricatura voluta, non certo per compiacere il lettore con quella patina di frivolezza che si propina a palati grezzi. I personaggi estremi di questo testo sono infatti orfani di ideologie, con complicatissime personalità, svuotati da quello che il contesto sociale ha loro imposto con forza sovrumana. Il baricentro di questo intricato crocevia psicotico, dove madri e padri misconoscono rifiutano e tradiscono i loro stessi figli è la protagonista Purity, dotata di suscettibile olfatto. Mentre il mondo esterno olezza e tutto sporca, la ragazza –nella sua morbosa normalità – risulta paradossalmente disumana. La maestria con cui Franzen cura la complessità di ogni singolo personaggio, esplodendo in lunghi capitoli i relativi risvolti psicologici e sociali degli stessi, è a dir poco incantante. Leggere un romanzo di Franzen, in particolare questo, porta il lettore negli intestini del personaggio. Il caleidoscopico mondo di emozioni e pensieri che ordisce è, nonostante tutto, sapientemente orlato da un contesto comune che danza e si incastra perfettamente con gli altri ambiti, dando gradualmente corpo al romanzo intero. Piccole galassie che si uniscono nel suo universo narrativo, unite da inscindibili legami atomici. È impressionante, mi si conceda ancora di dilungarmi su questo tema, il modo in cui infine il romanzo “viene insieme”: emerge l’allineamento perfetto di tutti i pianeti che lo popolano, il cardine centrale della storia finalmente si svela. Tornando al test: un nuovo paladino dell’informazione (si legga miraggio di libertà), al secolo Andreas Wolf, creatore e al contempo despota di un progetto di informazione sulla trasparenza delle notizie e del loro trattamento, nasconde un oscuro arcano nel suo passato. Durante la sua giovinezza vissuta nella Germania Est controllata dalla Stasi, il giovane Wolf commise un omicidio a fini amorosi che lo portò poi a confessarsi ad una sola persona alla quale, per il resto della vita, cercherà di rovinare l’esistenza. La persona in questione è Tom Aberrant, un giornalista americano che scambia inizialmente Wolf per un amico fidato e ben presto si accorge della sua insana bestialità repressa. Sarà Wolf, per sfregio supremo, a far rivelare a Purity l’enigma supremo della sua vita: l’identità di suo padre (ovviamente Aberrant stesso). Questo edipico ambiente è un contesto perfetto per ragionare sui totalitarismi. L’abilità di Franzen è quella di portarli dal generale al singolare, indagando nella psiche umana così ingenua portatrice di regimi totalitari innati nella propria singolarità. Cito dal testo: “Prima di smettere di rilasciare interviste, l’autunno precedente, aveva cominciato a usare la parola totalitario. Gli intervistatori più giovani, per i quali la parola significava sorveglianza assoluta, controllo mentale assoluto, eserciti grigi in parata con missili a medio raggio, avevano pensato che stesse dicendo qualcosa di ingiusto su internet. Ciò che aveva in mente, in realtà, era solo un sistema da cui era impossibile uscire. La vecchia Repubblica si era senz’altro distinta per sorveglianza e parate, ma l’essenza del suo totalitarismo era più quotidiana e sottile. Potevi collaborare con il sistema o potevi osteggiarlo, ma l’unica cosa che non potevi fare, che tu avessi una vita sicura e gradevole o che ti trovassi in prigione, era rimanergli estraneo. La risposta a ogni domanda, grande o piccola, era il socialismo. Sostituendo socialismo con network si otteneva internet, un sistema fatto di piattaforme rivali accomunate dall’ambizione di definire ogni aspetto dell’esistenza.” Il totalitarismo, insomma, è alla luce del giorno ed è in ognuno di noi. L’idea è brillante. Qui si capisce il motivo caricaturale di personaggi perennemente privati della madre, del padre, del figlio. L’uomo moderno – svuotato dai propri valori – non ha facoltà di riconoscersi. L’uomo moderno è al tempo stesso Dio e despota di se stesso.