Prima che iniziasse il viaggio il Mattia Leonardi mi aveva messo all’erta, “il quarto giorno inizia la nostalgia”. Ha ragione, è qualcosa di simile, dettata soprattutto dalla stanchezza che comincia a morderci le gambe e le spalle. Il quarto giorno è quello critico insomma, il vero volano del viaggio, e lo affrontiamo lasciando Baku cominciando a muoverci verso Ovest, verso la Georgia. Addio Mar Caspio, siamo rivolti ora alla sponda nera. Ogni mattina mettiamo la sveglia sempre più presto, ogni giorno ci svegliamo sempre più tardi. Riusciamo a levarci per le otto e dopo colazione chiediamo di essere portati nuovamente alla stazione dei bus, vogliamo andare a Lahic. Per arrivare alla nostra meta dobbiamo prima raggiungere îsmayilli, cittadina svincolo, e poi salire su un bus per le montagne. Il passaggio per la stazione ce lo da lo stesso autista che ci ha scarrozzato ieri sui monti. Non appena ci scarica in stazione inizia una turbolenta lite con altri quattro loschi ceffi tanto che noi, coraggiosamente, ci allontaniamo. I bus per tutte le direzioni sono furgoncini adibiti al trasporto di parecchie persone e partono per i luoghi di destinazione solo quando completamente rimpinzati di gente. Non c’è posto per le nostre ingombranti valigie e l’autista schiaccia i nostri grossi zaini fra i sedili e le portiere posteriori. Il minibus che parte da Baku ha dodici posti contati, saliamo in sedici. In poco più di due ore e mezza siamo a îsmayilli e ripetiamo la stessa manfrina. Bus, attesa, compressione dei bagagli, sovraffollamento. Questa volta il furgone ha sedici posti, saliamo in ventuno, li ho contati tutti, e ne recuperiamo altri quattro sul tragitto per un totale di venticinque esseri umani. Mi piacerebbe tanto raccontarvi la strada e i relativi paesaggi ma la calca di passeggeri, come un muro di gente, me lo impedisce. Sono seduto nell’ultima fila. Sento solo i sobbalzi degli ammortizzatori e immagino una via tortuosa, molto sconnessa. Dietro di me delle casse stereo gracchianti gridano melodie arabe ad altissimo volume, scale cromatiche demoniache si arrampicano sulla cima delle orecchie per crollare in lamenti orientali quasi angoscianti. L’autista alza il volume e passa costantemente dalla prima marcia alla terza ignorando la seconda. Giungiamo a Lahic alle tre di un fresco pomeriggio. L’impatto non è come quello del giorno prima. Il paesaggio è montano e verde, decisamente rilassante. Le case hanno balconcini in legno e il paese, di sole novecento anime, è spaccato in due da una via ciottolata, pietre grosse che si divertono a girarti le caviglie. Priorità è cercarci un rifugio. Chiediamo in giro chi ci possa ospitare e concordiamo l’affitto di una camera al barbiere del paese. Si chiama Naamik, non parla una parola di inglese ed è gentilissimo. Lasciamo i bagagli in casa e ci dirigiamo a mangiare, questa volta, seppur in ritardo, non ci siamo dimenticati. Facciamo conoscenza con Mikail, il proprietario di un grazioso ristorante sul belvedere che si diletta a parlare con il sottoscritto di scacchi e scacchisti. Lo torco, ma li conosce tutti, non bara mica. Il pomeriggio è speso con la solita tattica di generazione del piacere: la casualità. Scrutiamo ogni viuzzola, entriamo per sbaglio nei cortili, chiediamo una foto, o la rubiamo. Ci dedichiamo anche a cercare un punto internet ma il villaggio ed i suoi abitanti sembrano proprio non volerne sapere. E’ un colpo basso al diario, ma la sola idea di scrivere sapendo di essere letto domani, o dopo, mi ricorda quei messaggi in bottiglia che si mandavano un tempo e questo aiuta a scacciare la malinconia. Giunta ora di cena torniamo dal buon Mikail. Il freddo, inaspettato, punge e lui si adopera per farci avere degli smanicati imbottiti in lana che ci fanno sentire più a nostro agio e prolungano di un poco la nostra permanenza ai suoi tavoli sulla valle silenziosa. Scende il buio, paghiamo, ci avviamo. Lahic è privo di luci, brancoliamo nell’oscurità. Naamik il barbiere non abita vicino e per tornare ai nostri letti dobbiamo tagliare il centro. Dai vicoli, negli androni nascosti, sbucano persone che scivolano di fianco a noi nell’oscurità. Finalmente siamo a casa, tutto tace, tutto è buio. Naamik ci accoglie nel cortile con una piccola torcia. Non c’è luce, ci fa usare il bagno senza vedere dove zampilliamo. Ci accompagna in camera e per alcuni istanti l’illuminazione torna a regalarci l’immagine della nostra stanza. E’ piccola, tappezzata, un buco nel muro e tante coperte cangianti, è intima, c’è una stufetta accanto alla porta, una lampada a olio, fotografie e disegni di persona di un tempo, sbiadite. Ci accomodiamo, Naamik torna in camera, con lui nuovamente il buio. “Piva?” ci chiede. Non capiamo. Fa il gesto di bere. “Ciai” diciamo noi, ma non sappiamo se voglia dire “the” o se significhi “bere”. Naamik getta la mano spezzando un po’ il polso, come dire “fidatevi di me”. Birra! Ecco cos’era. “Piva!” gridiamo entusiasti. Il buon barbiere entra in camera, porta un bottiglione di birra, delle patatine, e nuovamente la luce. Stende i cuscini per terra, ci sediamo in cerchio e beviamo. Chiede delle nostre mogli facendo il segno sull’anulare. Scruta i tatuaggi. Ci diciamo le età. Naamik il barbiere ha cinquant’anni tondi tondi. Poi ho un’idea. Tiro fuori la pipa e gli dico “vuoi?” Naamik si illumina, anche se la luce sembra perdurare. Usciamo sul balcone e fumiamo, aspira che è un piacere. Non gli dico nulla, lo lascio fare come gli pare e piace. Poi mette le mani a croce sul petto, “per me basta così”, fa. Torniamo nella nostra stanzetta e mi metto all’opera per completare il diario. Naamik entra, mi vede, sorride, si accovaccia qui accanto a me, curiosissimo, incantato. In questo preciso momento sto scrivendo sotto i suoi occhi e più scrivo il suo nome, più la luce si sostiene. Mi ci vorrebbe una buona chiusura ad effetto per la pagina del diario, ma preferisco godermi questo momento in cui lui osserva ignaro questo scroscio di parole prive di senso, mentre voi lo attirate nella vostra memoria, priva di immagine. Tenetelo con voi, è tutto una luce. Naamik Naamik Naamik.