Quba 13 Agosto

Se la giornata di oggi fosse una poesia su uno dei miei libri, verrebbe sicuramente annotata con tre punti esclamativi. La destinazione è Quba (loro pronunciano gubà) una città nell’azerbaijan settentrionale che risulta comodo svincolo di passaggio per raggiungere le montagne al confine russo. Decidiamo di affidarci ad un tassista per l’intera giornata ed è una scelta che si rivelerà a posteriori assolutamente corretta, nonostante il suo -a dir poco artistico- modo di guidare. Uscendo dalla capitale l’intero scenario comincia presto a mutare. Lungo la drittissima statale che ci conduce a nord, la gente sosta ai lati della strada con le macchine che sfrecciano attorno a mille allora, si combinano, si intrecciano, danzano veloci. Arrivati alle pendici dei monti facciamo una breve sosta in un paesino chiamato Bulag (loro non so come lo pronuncino) e ci rinfreschiamo pronti per la salita. Alla nostra ripartenza un ragazzo si sbraccia per annunciarci qualcosa. Abbiamo una ruota a terra. Scendiamo, aiutiamo il nostro autista e montiamo un ruotino di scorta che sarà la fonte principale delle nostre preoccupazioni. La strada è irta e serrata. Asfaltata solo a tratti, si snoda all’interno di gole profondissime, mozzafiato. Le rocce sono rosso argilla con alte pareti abbellite dalla vegetazione rigogliosa interrotta qua e là da caverne sospese a decine di metri d’altezza. La strada sempre più polverosa, aguzza, sconnessa. Il rosso dei caldi sassi diventa pallida sabbia e le pareti, così come i muli che pascolano dimenticati nei prati, voltano ad un grigio splendente. Tutto è polvere, il bianco avorio riflette i raggi di sole che cadono nei pertugi rocciosi. L’autista gira sempre sopra i tremila giri. Abbiamo chiesto una meta, ma non sappiamo veramente se ci stia portando lì o in un paesino che lui stesso ritiene migliore. Quando parcheggiamo capiamo però di esserci intesi. Siamo a Xinaliq, un agglomerato di case d’estremo povertà. Xinaliq si arrocca sopra un piccolo monte nel mezzo di sterminate valli a più di duemila metri su livello del mare. Dietro la collina che lo eleva nella sua semplice bellezza la montagna si staglia verdissima, un rigagnolo d’acqua lontano cade fra le valli che cullano il paesaggio e paiono crollare direttamente dalle nuvole. Era dai tempi di Erice che non mi trovavo più di passaggio in mezzo ai cirri, li ritrovo stendendo le braccia. Intanto la gente ci accoglie calorosissima e il nostro fidato autista sembra compiaciuto. L’espressione è quella del generoso genitore con i propri pargoletti, andate e perdetevi, su su. Un tipetto sulla ventina ci squadra sospettoso. È biondo, occhio azzurro, veste dei mocassini beige quadrettati, ascolta la musica in cuffia. Si presenta come Ceyhun (capiamo Gerun) e mantiene un fare schivo. Ci facciamo guidare nel villaggio, vuole portarci al museo cittadino, i bimbi ci seguono. Finalmente i miei miseri desideri di curiosità di ieri si avverano: i piccolini, timidi, mi chiedono di mostrare loro i denti, quasi impauriti. Li digrigno, loro osservano stupiti, altro che oro pensano, bisbigliano, si danno di gomito, e io capisco di essere finalmente fuori dalla società che consociamo. Il museo non è altro che una stanza con cimeli. C’è un libro degli ospiti, che firmiamo volentieri, ed un sacco di roba dimenticata, da pagine del Corano ingiallite a vecchie tessere del partito comunista, tutto rigorosamente impolverato. Ceyhun ci conduce a casa sua, parla poco l’inglese ma si arrangia. Lo assecondiamo, ed ora che scrivo, ripenso a quegli istanti. Se solo potessi descrivere le facce e gli scorci del paesino, se solo potessi avervi portato davvero tutti con noi, e insegnarvi o mostrarvi la nostra meraviglia, la nostra soggezione nell’eserci sentiti in imbarazzo per tanta ospitalità… Ci sono le foto, migliaia di foto, credo, perché lì ogni angolo si presta al l’obiettivo, ma non è in alcun modo sufficiente. Sediamo in casa nel salotto al primo piano, Ceyhun fa portare alla madre il the e ci mettiamo a imparare i numeri con lui. Come mettendo un paio di occhiali, anche le età si delineano meglio e i suoi anni diventano diciassette, più precisi. La nostra pronuncia rimane improbabile, cieca. Suona anche il telefono, la madre risponde e parla in piedi su un cuscino, probabilmente è costume far durare molto le chiamate, penso. Ceyhun ci chiede se vogliamo vedere la montagna, gli diciamo di sì. Nelle stradine ripidissime, sconnesse dai sassi, circola ogni sorta di animale. Il paese è pieno di bambini zozzi. Siamo così estasiati che ci dimentichiamo di mangiare, vogliamo solo godere il più possibile di quella gente e di quel panorama. A malincuore salutiamo tutti e ci avviamo. La strada di ritorno è un imbuto che ci risucchia nel passato, il lungo cordone ombelicale di una nascita al contrario dove cadiamo abbandonando quello scorcio di isolata e quasi primitiva felicità. I colori e le immagini tornano indietro nel tempo. La salita diventa discesa. Ceyhun, il saluto, il bianco, i rossi muri bucati, gli anfratti, i muli bianchi, i muli scuri, Bulag, la ruota si ripara, i ruscelli, poi la terra, poi l’asfalto, la strada, la statale, i palazzi, le luci, la civiltà, il sonno, le auto, il petrolio.

-Postilla- Tornati per l’ultima notte a Baku, scegliamo di andare a mangiare al ristorante dell’altra sera visto l’enorme fame che ci accompagna dalla mattina. Giunti alla soglia il proprietario ci dice “tornate fra mezz’ora, sta arrivando Putin a mangiare il pane”. Troppo affamati per resistere ci accomodiamo nel locale poco a fianco ed effettivamente dopo poco tempo si ripete la scena dell’altra sera. Macchine da golf, scorta, gorilla a perdita d’occhio, poi Putin e il suo faccione. Non ha giacca. E’ massiccio. “Va beh”, facciamo “adesso la stazione dei bus sappiamo dov’è” e finiamo in pace di mangiare il nostro agnello.

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