Leonardo Sciascia – A ciascuno il suo

Che un delitto si offra agli inquirenti come un quadro i cui elementi materiali e, per così dire, stilistici consentano, se sottilmente reperiti e analizzati, una sicura attribuzione, è corollario di tutti quei romanzi polizieschi cui buona parte dell’umanità si abbevera. Nella realtà le cose stanno però diversamente: e i coefficienti dell’impunità e dell’errore sono alti non perché (o non soltanto, o non sempre) è basso l’intelletto degli inquirenti, ma perché gli elementi che un delitto offre sono di solito assolutamente insufficienti. Un delitto, diciamo, commesso o organizzato da gente che ha tutta la buona volontà di contribuire a tenere alto il coefficiente di impunità. Gli elementi che portano a risolvere i delitti che si presentano con carattere di mistero o di gratuità sono la confidenza diciamo professionale, la delazione anonima, il caso. E un po’, soltanto un po’, l’acutezza degli inquirenti.

 

DUE PAROLE

“Unicuique suum”, a ciascuno il suo. Si parte da una lettera minatoria ricevuta da un farmacista appassionato di caccia, il quale, dopo qualche tempo, viene misteriosamente assassinato assieme ad un suo amico, il dottor Roscio. Un caso particolare, che gli inquirenti accantonano con superficialità, classificandolo come delitto passionale, pensando ad un’improbabile tresca fa il farmacista Manno e una frequentatrice della farmacia stessa. L’unico a vedere qualcosa di più sotto la coltre di menefreghismo e omertà che patina gli inquirenti è il professor Laurana.
In una costruzione impeccabile di taglio giallo, Sciascia fa gravitare attorno al professore gli stereotipi di quella Sicilia da lui così bene descritta. Durante le ricerche private infatti il professore si imbatte in marionette della politica, cariatidi, preti ed arcipreti, ed acculturati avventori. Personaggi che, spesso, sanno benissimo di essere parte immutabile di quell’ambiente. Ricorda molto il famoso “discorso dell’acqua” di David Foster Wallace, ma al contrario. Pesci troppo furbi che, per sopravvivere, sanno come e dove popolare il loro microcosmo. Fa dire Sciascia al parroco in colloquio con il buon Laurana: “una volta, in un libro di filosofia, a proposito di relativismo, ho letto che il fatto che noi, ad occhio nudo, non vediamo le zampe dei vermi del formaggio non è ragione per credere che i vermi non le vedano… Io sono un verme dello stesso formaggio, e vedo le zampe degli altri vermi.” “Divertente”. “Non tanto” disse il parroco. E con una smorfia di disgusto “Siamo sempre tra vermi”.
L’autore non risparmia nessuno, scaglia ferocemente le ipotesi, le tesi e le risposte nel calderone. Le verità emergono come bolle d’aria da relitti ormai affondati nell’oceano del silenzio. Ironico e simbolico il finale. Laurana, che si invaghisce della vedova Roscio, arriva troppo tardi a scoprire la verità sulla stessa. Era lei complice e colpevole di un delitto passionale, compiuto dal cugino del defunto, il quale sosteneva una relazione incestuosa con la bella donna da lungo tempo. Cornuto e mazziato, così si finisce. Chi prova a scuotere le acque (o meglio dire il formaggio intriso di vermi) diventa terra ancor più adatta al brulicare. Persino gli interlocutori dello stesso Laurana, che così tanto sembravano acuti e d’aiuto durante le sue ricerche, lo apostroferanno liquindandolo a rango di “cretino”, una volta saputa la sua “meritata” fine. A ciascuno il suo.

 

INFO UTILI

Poco più di un’ora di lettura.
Edizione Adelphi, tascabile. ISBN 9788845915147
In copertina un quadro di Enrico Baj