Marco Balzano – Resto qui


Al sole di mezzogiorno togliemmo le sciarpe e mangiammo altro formaggio. Si riposò prima lui. Io con la pistola uscii fuori dalla grotta a guardare la luce brillante del cielo. Le nuvole lunghe e strette che s’inseguivano in quell’azzurro immacolato. Vidi un’aquila roteare in lontananza. Passai in rassegna gli alberi. Calciai qualche sasso. L’aria era immobile. “Se vedi tronchi graffiati allontanati perché significa che da quelle parti c’è un lupo,” aveva detto Erich. “E se me lo trovo davanti?” avevo chiesto agitata. “Devi sparargli negli occhi. E lo stesso devi fare coi tedeschi. E anche con gli italiani. Se vuoi sopravvivere devi sempre sparare negli occhi.” “Quassù siamo fuori dalla guerra” dicevo a Erich la sera davanti al fuoco. “Questa pistola è la guerra” lui annuiva. “Però non siamo diventati loro complici”.

DUE PAROLE

La guerra arriva inaspettatamente in questa terra di confine, dall’identità polivalente. Un luogo dove le ideologie si litigano il territorio, e gli abitanti del posto ne vengono inesorabilmente travolti. Con l’ingenuità di chi abbraccia incondizionatamente una cultura, un valore, uno stato, una religione e quindi le rispettive ideologie, gli uomini e le donne del popolo trentino si dividono. La vallata rurale, vissuta pacificamente nella sua dualità italo-germanica, ma pur sempre di stampo contadino, si vede repentinamente e brutalmente trasformata in un luogo di scelta, di azione e di cambiamento. Parteggiare per l’Italia fascista o la Germania nazista diventa quindi una questione vitale, che si traduce infine nella semplice decisione di partire o restare. Allo stesso modo, accettare o meno la costruzione dell’enorme diga nei pressi di Curon, significa comprendere il progresso e l’avvento dei tempi. L’esproprio dei terreni non è meno brutale dell’esilio a cui è costretto un civile che ripudia la guerra e i suoi mezzi. Il popolo di Curon assiste alla fine dello stato sociale per come veniva conosciuto. Il romanzo ci pone dunque di fronte a quegli eventi ultra naturali, straordinari, che segnano per sempre il corso degli eventi. Una guerra, come una diga, è volere di una nazione, di uno stato. Il singolo individuo che si trova involontariamente e casualmente coinvolto in questa decisione non può che risultarne vittima. Soccomberne. Certo, egli ha, in fondo, ancora la scelta di combattere, trasformandosi a sua volta in una pedina (più o meno cosciente, più o meno volente) del grande flusso, ma non può certo essere sufficiente a salvarlo. Cosa, meglio di una diga, rappresenta il desiderio recondito dell’umanità, ovvero quello di controllare la natura e l’evolversi del suo corso? L’imponenza e la ferocia di un monolitico blocco cementizio capace di contenere un fiume in piena e trarne energia (profitto), non è nient’altro che la trasposizione concretissima degli stessi desideri che animano i due dittatori che stanno mettendo a ferro e fuoco l’intera umanità.