Paolo Cognetti – Le otto montagne


Era il gioco dell’utopia a cui giocavamo ogni sera. Bruno, che il suo villaggio ideale lo stava costruendo davvero, si divertiva a demolire il nostro. Diceva: senza cemento le case non stanno in piedi, e senza concime non cresce nemmeno l’erba dei pascoli, e senza benzina voglio vedere come tagliate la legna. D’inverno che cosa pensate di mangiare, polenta e patate come i vecchi? E diceva: siete voi di città he la chiamate natura. È così astratta nella vostra testa che è astratto pure il nome. Noi qui diciamo bosco, pascolo, torrente, roccia, cose che uno può indicare con il dito. Cose che si possono usare. Se non si possono usare, un nome non glielo diamo perché non serve a niente.

DUE PAROLE

Il protagonista, Pietro Guasti, racconta il rapporto che lo lega ai grandi amori e rivali dalla sua vita: il padre, il migliore amico e la montagna. Un libro rurale, che gira sostanzialmente intorno ai tempi di sentimenti rudimentali e semplici, ma per questo purissimi. L’amicizia, il rispetto, la ribellione, la fiducia e la fedeltà. Gli uomini del romanzo sono indissolubilmente legati alla montagna. Bravissimo, a mio avviso, l’autore nel riuscire a darci una dimensione di purezza per una storia moderna. Oggi impresa praticamente impossibile. I personaggi del testo gravitano più o meno vicino a un centro di purezza universale, di solitudine morale, rappresentato dal lato incontaminato delle Alpi che sovrastano il paesino di Grana. La narrazione prende ritmo dal costante e musicale allontanarsi del protagonista dall’epicentro granitico del testo. Proprio come nella leggenda delle otto montagne, appresa da Pietro in uno dei suoi numerosi pellegrinaggi verso le catena del Nepal, la comprensione del mondo, della propria dimensione e forsanche del proprio destino, avviene attraverso il ricongiungimento dell’esploratore con il centro nevralgico (sentimentale) della sua vita. Un incessante ritorno alle origini, al centro della propria esistenza e, quindi, della propria essenza.