In base all’ultimo censimento, la mia testa ospita quattro voci distinte. Prima di tutto, naturalmente, c’è la chiacchiera dei soldi, che potrebbe essere rappresentata graficamente come i segni confusi sui tasti più in alto della macchina da scrivere: %#@=&!- [Leggi: lire, percento, cancelletto, chiocciola, uguale, e commerciale, dollaro, punto esclamativo, meno. N.d.T.] somme, sottrazioni, terrori composti e smanie. Poi c’è la voce della pornografia. Quest’ultima suona spesso come il rap di un disc jockey demente: come muove quel sedere, lei già mi fa godere, su dai fammi vedere, vieni qui dammi da bere, oh mama mama ma-ma, sei proprio una puttana… E così via. (Una delle voci minori della pornografia che ho nella testa è quella di un vagabondo nero fuori di testa o cranioleso che si aggira per Times Square qui a New York. Incomprensibili quanto indiscutibilmente sboccati, i suoi monologhi suonano più o meno così: Ah Ah Ah eh dai, eh dai eh dai, eh vai eh vai eh vai, sì, così, sì così. Anch’io parlo spesso così tra me e me). Terza, è la voce del tempo che passa e delle stagioni, del lungo viaggio dei giorni uno sull’altro, il lamento sempre più debole del pudore ferito, della noia sconsolata, della protesta futile… Ma la vera intrusa è la numero quattro. Non vorrei nessuna di queste voci, ma questa meno che mai. la più recente. Ha a che fare con il bisogno di smettere di lavorare per mettermi a pensare a cose alle quali non ho mai pensato prima. Ha la sgradevole cantilena della paranoia, della collera e del piagnisteo articolati in spasmi di lucidità: farfugliamenti da ubriaco ripetuti da sobrio. Intanto alla tele continuano a passare pubblicità isteriche o notiziari del cazzo… Tutte le voci arrivano da un altro posto. Mi piacerebbe potermele togliere dalla testa tirando uno sciacquone. E’ come coi vampiri, bisogna invitarli a entrare, ma una volta che ce li hai in casa, una volta che gli hai fatto spazio in mente, decidono di non mollarti più. Non farle mai entrare, le rompiballe. Non farle entrare, in nessun caso.
DUE PAROLE
Inteso come la lunga nota di un suicidio mai avvenuto (non si capisce chi l’abbia scritto, fra l’altro, come giustamente mi ha fatto notare il mio amico Michele), Money è il racconto della vita estrema e assai infantile del signor John Self (sic, il signor Self per parlare di un protagonista che sfoggia costantemente il suo egocentrismo), produttore pornografico, viziato e superficiale. Romanzo di culto, non capisco il perché. Imbottito di verve da duro-macho-americano, pieno di luoghi comuni sul sesso, i soldi, la stupidità degli ego smisurati, l’ignoranza, l’attualità e, ovviamente, la superficialità. L’autore ci vuole descrivere le caratteristiche della persona media moderna? Era una critica alla nostra cieca società dei consumi? Non l’ho capito. Non ho capito cosa volesse dire il romanzo, qualora avesse un messaggio, né cosa volesse sfoggiare. In entrambi i casi, ovvero nella semantica e nella veicolazione delle idee, i miei pareri sono negativi. Perché, se come dice il protagonista nel testo, stiamo tutti troppo concentrati su noi stessi per pensare alla cultura e a conoscere il prossimo (la lettura di un libro è un tabù e il tempo che dedichiamo agli altri ne è la conseguenza), ciò mi sembra una critica un po’ troppo all’acqua di rose. E se mi dovessi invece limitare allo stile, beh, tornano utili nuovamente le parole del buon Michele. “Fa film, beve, fa battutacce ma non è Barney, mannaggia”. Tutto, a mio modesto avviso, è un po’ di troppo in questo romanzo. A cominciare dall’inutile prolissità (ok, l’ho appena accennato poco fa. Se la prolissità fosse vessillo di una critica alla superficialità a mio avviso non ci siamo proprio). Passando poi per l’uso estensivo di parafrasi inefficaci, sgraziate. Salvo, non mi si passi per nevrotico, l’intensità del testo e la fitta volontà di raccontare (ma ancora mi chiedo se questo non sia un goffo richiamo allo stile post-modernista così in auge – e ben visto dalla critica – di questi tempi) un mondo così becero con toni tutto sommato soft-pornografici. Un libro che non mi rappresenta o, forse, che non ha saputo nemmeno altro rappresentare. Dimenticavo! Terribile, dio ve ne scampi, il ripetuto cammeo dello scrittore nel testo stesso.