«Conta moltissimo» ribattei. Mi avvicinai. «Conta…» cominciai a dire ma mi fermai. Le sfiorai la mano e poi le strinsi le lunghe dita. «A volte le persone credono di potersi spiegare a parole. Di poter spiegare i propri sentimenti all’altro nel loro svolgersi, quasi nel momento stesso in cui nascono, in una specie di traduzione simultanea. Sono convinte che non dovrebbero esserci misteri, che tutto vada espresso e capito. A mio parere è quello che sta cercando di fare lei in questo momento. Parlando e chiedendomi di spiegarmi sta cercando di capire me, i sentimenti che prova nei miei confronti e quelli che provo io nei suoi. Capisco cosa la muove perché sono confuso anch’io. Le sue domande, però, mi spaventano e così le mie risposte, perché sembrano molto parziali e definitive. Io stesso sto tentando di scoprire cosa provo per lei e so soltanto che provo molto, e con trasporto. Con passione. Ma è qualcosa di oscuro, una foresta, una foresta buia e non voglio mettermi ad abbattere tutti gli alberi per riconoscere e dunque spiegare i miei sentimenti. Mi piace il buio in cui ci troviamo». «Ama il buio?». « Be’, forse amare non è la parola giusta. Lo rispetto. Gli rendo onore».
DUE PAROLE
Sarebbe assai banale soffermarsi sul ribaltamento di prospettiva che fa da cornice al libro. “Andorra” contiene molto di più di uno sberleffo autoriale. Con la scusa del plateale colpo di scena, nel quale si cela il romanzo nel romanzo, e grazie alla quale emerge la tragica verità di un crudele uxoricidio, ci si muove attraverso i compartimenti stagni della comunicazione (della sua innata impossibilità di successo), del non linguaggio, della distanza fra gli uomini. Nessuno di essi è un’isola, diceva il famoso tratto di John Donne ripreso anche da Hemingway in un suo incipit, che questa delicatissima lettura riesce a esattamente a ribaltare esasperando la distanza e la solitudine di ogni essere umano. Le anime che vagano nelle sue pagine sono chiatte alla deriva, sono piattaforme isolate, che si intravedono nel marasma dell’oceano della vita e – senza alcun successo – provano a mandarsi segnali d’aiuto. Tutti i personaggi del romanzo portano infatti con sé una tragedia, un profondo dolore e un comune destino: la solitudine. Gli uomini e le donne di Andorra nascondono goffamente le proprie cicatrici. Il risultato, espresso anche tramite un’indefinita collocazione temporale (direi anche Geografica, non fosse per il luogo continuamente citato), è qualcosa di paragonabile a un quadro di Hopper. Una serena e pacata incomunicabilità dipinta a tinte pastello, semplice, lineare, eppur devastante per profondità ed efficacia. Un’alba tetra. Andorra è il luogo remoto dove questo dramma si arena e si consuma, ma prima ancora è la coscienza stessa del protagonista. Quest’ultimo, che lentamente arriviamo a capire freddo omicida di moglie e figlia, porta il mondo immaginario del suo calvario e perdono in un luogo remoto e fantastico, una landa al di fuori delle normali giurisdizioni geopolitiche come il principato di Andorra. Un libro eccelso, un grande Gatsby dilaniato, il suo negativo vituperato dalla radice meschina e malvagia dell’umana ragione. Difficile scrivere qualcosa di così originale ora che tutto è stato ormai detto. Lodevole come Cameron aggiri il dilemma dell’esprimersi (mi riferisco al famoso “su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”) incastonando una scelta assai banale come quella del diario/romanzo. Un trucco, apprezzatissimo, per concedersi di dire l’indicibile.