Com’era bello tenere in mano quell’acino freddo e lucente in un caldo pomeriggio d’estate, col professore addormentato sull’alta cattedra intagliata! Com’era bello sentire quella cosina fredda e sgusciante sul palmo caldo e appiccicoso della mano! Tito la strinse forte e poi la tenne contro la luce. Mentre la faceva girare tra il pollice e l’indice i fili colorati ruotavano l’uno intorno all’altro: si disponevano a spirale, attorcigliati in un ricciolo senza fine. Rosso: giallo: verde: viola: azzurro… Rosso-giallo-verde-rosso… giallo… rosso… rosso. Nella sua mente il rosso divenne un pensiero unico – un colore-pensiero – e Tito scivolò nel ricordo di un altro pomeriggio. Il soffitto, i muri, il pavimento erano rossi e indistinti: lo avvolgevano come un bozzolo; ben presto però i muri si contrassero e tutte le superfici si condensarono e finalmente tutto era a fuoco; quella nebbia confusa non c’era più, e andandosene aveva lasciato una piccola goccia di sangue, calda e umida. La luce del sole la faceva brillare. Ce l’aveva sulla nocca, perché nella stessa aula, un anno prima, quel pomeriggio, si era azzuffato con un altro bambino. Insieme a quel ricordo, una rabbia malinconica si insinuò in Tito. Quell’immagine così violenta, quella piccola goccia di sangue brillante, e diverse altre sensazioni, coprirono la rabbia nascosta e spinsero avanti un senso di allegria, di fiducia in se stesso, e anche di paura per aver versato quel liquido rosso – quel fiotto cremisi così irreale eppure così concreto. Poi i contorni della perla di sangue sfumarono, confondendosi finché quella, cambiando il suo profilo, non divenne un cuore… un cuore. Tito si portò le mani al petto. Dapprima non riuscì a sentire nulla, poi muovendo la punta delle dita arrivò a distinguere il doppio battito, e il frastuono lo raggiunse di corsa da un’altra regione della sua memoria: il rumore del fiume, una notte in cui era rimasto da solo tra i giunchi altissimi e aveva visto, sbirciando tra quelle colonne nere come l’inchiostro e grosse come funi, un cielo come un campo di battaglia.
DUE PAROLE
Sono giunto a conoscenza di Mervyn Peake attraverso un’intervista a Michele Mari, che lo annoverava fra i più grandi scrittori mai esisisti assiema a Gombrowicz, Céline e Gadda. Visto il mio ardore per questi giganti, ho prontamente provveduto a colmare la lacuna, entusiasta. Ma ho sbagliato, e due volte. La prima è per essermi fidato del suo giudizio, la seconda per aver iniziato (incosapevolemte) dal secondo libro della trilogia di “Gormenghast” scombinandone inesorabilmente la trama. Mari avvisava: “è una meraviglia, ma devi essere predisposto. È un libro tra Lewis Carroll e Tolkien però come se lo avesse scritto Sebald (che non conosco, ndr), un libro architettonico.” E io questo glielo riconosco, gli riconosco tutto, tutto tranne la meraviglia. Il grande pregio di quest’opera (o forse della scrittura di Peake, che però non conosco ancora abbastanza) è l’originalità con cui l’autore miscela un’ambientazione quasi fantasy (ma un fantasy elevato, alla Tolkien) con una grottesca, plumbea ed elegante prosa. Un libro per bambini adulti, si pensi ad Harry Potter (che non ho letto) ma meno popolare. Ai paragoni debbo aggiungere però (e questo rimane un mio personalissimo parere) due altri autori che mi hanno sempre abbastanza infastidito per gigioneria creativa, ovvero il Calvino (fatta eccezione per alcuni scritti precisi, con i quali ho un rapporto di amore ed odio) e il meno conosciuto Tom Robbins (quello di “natura morta con picchio”). Sembra ovvero che i pregi dell’opera siano solo a livello di forma e per nulla a livello di contenuto. A tal proposito sarebbe bene venire agli eventi. In un ambientazione oscura sulla quale torreggia il castello (o regno?) di Gormenghast, si svolgono le vicissitudini del suo settantesimo conte, il giovane Tito, e dei personaggi alla sua corte. I giochi di potere di palazzo si intrecciano classiche storie d’amore come in uno degli innumerevoli e perennemente ricalcati poemi medievali. I temi espressi sono la malvagità innata (del vecchio Barbacane, ucciso dal suo giovane allievo Ferraguzzo, che avrà poi una relazione traballante con Fucsia, sorella di Tito) e la confusione dei ruoli standardizzati (su tutte, la figura di Tito, che pur essendo conte vive soggiogato, e il consiglio di professori dalla dubbia statura morale). Non mancano i reietti e i reprobi (Lisca) e le vicende epiche, come lo scontro conclusivo (eterna lotta fra bene e male) fra Tito e Ferraguzzo, che vedrà soccombere quest’ultimo. Infine, il tema del viaggio e del ritorno. Quel sentimento di inquietudine che non riesce a legarci ad un posto (nonostante la sua meritata conquista). Un libro affascinante ma assai lontano dal mio concetto di meraviglia. Una lettura lunga e faticosa, che mi è costata moltissima fatica nel mantenere viva. Così come la semplice e genuina involontà di trovarvi un interesse.
INFO UTILI
594 pagine, più di 10 ore di lettura.
Edizioni Adelphi. ISBN 9788845920233