Niccolò Ammaniti – Anna

Negli ultimi quattro anni di vita Anna aveva sofferto e superato dolori immensi, folgoranti come l’esplosione di un deposito di metano e che le stagnavano ancora nel cuore. Dopo la morte dei suoi genitori era precipitata in una solitudine cosí sconfinata e ottusa da lasciarla idiota per mesi, ma nemmeno una volta, nemmeno per un secondo l’idea di farla finita l’aveva sfiorata, perché avvertiva che la vita è piú forte di tutto. La vita non ci appartiene, ci attraversa. La sua vita era la medesima che spinge uno scarafaggio a zoppicare su due zampe quando è stato calpestato, la stessa che fa fuggire una serpe sotto i colpi della zappa tirandosi dietro le budella. Anna, nella sua inconsapevolezza, intuiva che tutti gli esseri di questo pianeta, dalle lumache alle rondini, uomini compresi, devono vivere. Questo è il nostro compito, questo è stato scritto nella nostra carne. Bisogna andare avanti, senza guardarsi indietro, perché l’energia che ci pervade non possiamo controllarla, e anche disperati, menomati, ciechi continuiamo a nutrirci, a dormire, a nuotare contrastando il gorgo che ci tira giú. Eppure, lí nella cava, questa certezza vacillò.

DUE PAROLE

In un teatro apocalittico, in una Sicilia isolata, una coppia di fratelli – Anna e Astor – si imbattono in un lungo viaggio per cercare di raggiungere “il continente”, le coste europee della Calabria, dove – forse – possono sperare di trovare qualcuno o qualcosa che gli permetta di sopravvivere alla piaga biblica che ha sterminato il mondo. L’umanità è stata decimata da un virus incontrollabile, una pandemia che ha raso al suolo la maggior parte della popolazione. Gli unici sopravvissuti, poiché momentaneamente immuni alla malattia, sono i bambini e gli animali. Armati di coraggio ed intraprendenza i due fratelli dimostrano di essere più forti di ogni avversità. Immuni non solo dalla “rossa”, la terribile malattia, ma anche da ogni forma di paura. Il mondo si è pertanto trasformato in una solitaria landa selvaggia dove bande di infanti lottano crudelmente per gli alimenti di prima necessità. Non mancano le scena macabre e d’impatto, in cui Ammaniti decide di insistere con l’efferatezza del racconto e delle immagini. Rimane, a mio avviso, un romanzo debole. Non solo perché privo di inventiva (come rubare il posto a “il signore delle mosche” quando si parla di bambini selvaggi?) ma anche perché sostenuto da poche metafore, da pochi temi di discussione (sempre considerando il fatto che possa esser la mia corta vista ad acciecarmi). Rimane, fra le peripezie dei fratelli, un vago inno alla vita e alla vitalità, soprattutto alla sua effimera consistenza: il poco qui sopra “La vita non ci appartiene, ci attraversa “, nonché un pallido modo di raccontare una faccia della Sicilia, quella attuale, forsanche simbolo principe di un isolamento dove l’individuo del nostro secolo sembra essersi nascosto con premura. Come tutti i libri apocalittici, Anna porta il livello umano ad uno stadio primordiale ed essenziale, che sì ci ricorda l’essenza delle nostre origini bestiali ma che pochissimo aggiunge alle bellissime pagine già scritte in tal senso (come rubare il posto a “La peste” quando si parla di epidemie?). L’autore non è riuscito a cogliere o sviluppare con decisione nessuno dei temi più sensibili, si è fatto invero ingolosire dal colpo di scena o dal semplice esercizio di stile. Elogiabili invece il cinismo e la fatalità con cui il peso della vita cade sulle due giovani creature, un messaggio che ci ricorda come spesso, con così tanto ritardo, arriviamo a prenderci responsabilità nella vita. Vita che non sempre concede a tutti il lusso di aspettare.