Amos Oz – Giuda

Tutti quei chiodi nella carne glieli ho piantati io. Tutte quelle gocce di sangue colate dal suo corpo puro, le ho versate io. Lui sin dall’inizio ha sempre saputo fin dove arrivava la sua forza, e io no. Io ho creduto in lui molto più di quanto lui non credesse in se stesso. Sono stato io a spingerlo a promettere cielo nuovo e terra nuova. Un regno non di questo mondo. A promettere la redenzione. A promettere la vita eterna. Lui aveva solo in mente di continuare a procedere qui su questa terra, a guarire i malati e saziare gli affamati e seminare nei cuori amore e compassione. Nulla di più.

DUE PAROLE

Il sensibile studente Shemuel Asch, preda di una classica crisi esistenziale scaturita in seguito alla rottura con la promessa sposa e al fallimento economico della propria famiglia, decide di rispondere ad uno strano annuncio trovato sui muri di un caffè universitario. Diventa quindi accompagnatore sedentario, una sorta di badante a mezza pensione, di un vecchio disabile di immensa cultura, tale Gershom Wald. Quest’ultimo, uomo spigoloso, dalla parlantina raffinata e dal nozionismo enciclopedico, vive rinchiuso nella sua abitazione-roccaforte, divisa con la moglie del defunto e unico figlio. Pensa così di potersi dedicare alla sua opera principale “Gesù visto dagli ebrei”, una specie di esegesi evangelica del tutto personale, che spesso si interroga sulla figura di colui che più di tutti, secondo il giovane autore, avrebbe creduto nella verità e nella figura di Cristo: Giuda Iscariota.
“il cui scopo e senso della vita si infransero sotto i suoi occhi sgomenti, Giuda che capì di aver causato con le proprie mani la morte dell’uomo che più amava e ammirava, se ne andò a impiccarsi. Così[…] “così morì il primo cristiano. L’ultimo cristiano. L’unico cristiano.”
La figura di Giuda è usata come una metafora a incastri, lungo un tappeto narrativo dove si interallacciano uomini simili, primo su tutti il padre dell’ammaliante Atalia (nuora del Wald), il famoso Shaltiel Abrabanel, amico-nemico di Ben Gurion, ed persino entità, vedasi il socialismo, nonché lo stesso stato di Israele. È un libro infatti, Giuda, che mi sento di dire (nonostante la mia completa ignoranza in materia) potenzialmente blasfemo per i convinti Israeliti, per i sionisti e forse anche per qualche frangia cattolica. Cos’è infatti Giuda? Cosa rappresenta? Dice Shemuel (anch’egli accostabile a certi tratti di controtendenza tipici dei traditori o rivoluzionari): Chi è pronto al cambiamento […] chi ha il coraggio di cambiare, viene sempre considerato un traditore da coloro che non sono capaci di nessun cambiamento, e hanno una paura da morire del cambiamento e non lo capiscono e hanno disgusto di ogni cambiamento.” Giuda è il vento del cambiamento, del nuovo, dell’istinto. È semplicemente il cieco coraggio di credere nelle proprie idee. Un coraggio così cieco da essere in grado di portarle fino alla loro rovina. Nonostante mi senta di far rientrare questa lettura nel genere di romanzo storico-politico, non posso negare di averne percepito una forte componente formativa, lungo la quale il protagonista del racconto impara a diventare uomo. L’istinto adolescenziale si plasma in esperienza, coadiuvata anche dalla madre-moglie-prostituta-madonna di Atalia. La staticità della casa, cementificata tanto quanto le idee e i luoghi comuni delle persone. La rigidità delle sue camere, delle sue posizioni ben definite. L’inflessibilità delle routine che governano l’ambiente (il pasto portato dalla vicina di casa, l’impossibilità ad uscire dall’edificio, il ripetersi incessabile degli eventi etc) sono le espressioni dell’arroccamento di posizioni integraliste ed inflessibili, che nessuna forza o idea riuscirà a crepare nel tempo. Nemmeno quelle spinte da anime ribelli e fuori dall’ordinario, consegnate alla storia nella loro mancata verità, adombrate dalla patina di pregiudizio dei loro contemporanei. Abrabanel, il ruvido padre amico degli arabi, reietto. Reprobo d’eccellenza. Giuda Iscariota. Eterno adolescente.