Primo Levi – I sommersi e i salvati

Tuttavia, è talmente forte in noi, forse per ragioni che risalgono alle nostre origini di animali sociali, l’esigenza di dividere il campo fra «noi» e «loro», che questo schema, la bipartizione amico-nemico, prevale su tutti gli altri. La storia popolare, ed anche la storia quale viene tradizionalmente insegnata nelle scuole, risente di questa tendenza manichea che rifugge dalle mezze tinte e dalle complessità: è incline a ridurre il fiume degli accadimenti umani ai conflitti, e i conflitti a duelli, noi e loro, gli ateniesi e gli spartani, i romani e i cartaginesi. Certo è questo il motivo dell’enorme popolarità degli sport spettacolari, come il calcio, il baseball e il pugilato, in cui i contendenti sono due squadre o due individui, ben distinti e identificabili, e alla fine della partita ci saranno gli sconfitti e i vincitori. Se il risultato è di parità, lo spettatore si sente defraudato e deluso: a livello più o meno inconscio, voleva i vincitori ed i perdenti, e li identificava rispettivamente con i buoni e i cattivi, poiché sono i buoni che devono avere la meglio, se no il mondo sarebbe sovvertito. 

DUE PAROLE

Levi torna, dopo anni, a chiudere il cerchio. Un romanzo che pone una lunga riflessione sul tema dell’olocausto – ovviamente – seppur decentrandosi un poco dallo stesso. La prosa di Levi invita infatti a capire i motivi culturali, sociali e politici di un gesto così inconsulto e così vicino. Si trova, oggi, in parole scritte decine di anni fa, una lucidità e contemporaneità di pensiero incredibile. So che è banale dire queste cose, so che la facoltà di parlare ai “moderni” è propria di tutti i grandi autori. Ma tengo a dirlo per un motivo preciso, perché la ferita prodotta dal nostro passato, il solco che ha squarciato l’Europa, non è affatto guarito. Così come è recente, recentissima, la posizione politica o la forma mentis che divide tutto in due squadre, in due fazioni. I sommersi e i salvati, appunto, sono il metodo binario e provocatorio di indicare chi è passato da quella cosa come vittima. Levi spiega così il suo testo “Un’apologia è d’obbligo. Questo stesso libro è intriso di memoria: per di più, di una memoria lontana. Attinge dunque ad una fonte sospetta, e deve essere difeso contro se stesso. Ecco: contiene più considerazioni che ricordi, si sofferma più volentieri sullo stato delle cose qual è oggi che non sulla cronaca retroattiva. Inoltre, i dati che contiene sono fortemente sostanziati dall’imponente letteratura che sul tema dell’uomo sommerso (o «salvato») si è andata formando, anche con la collaborazione, volontaria o no, dei colpevoli di allora; ed in questo corpus le concordanze sono abbondanti, le discordanze trascurabili. Quanto ai miei ricordi personali, ed ai pochi aneddoti inediti che ho citati e citerò, li ho vagliati tutti con diligenza: il tempo li ha un po’ scoloriti, ma sono in buona consonanza con lo sfondo, e mi sembrano indenni dalle derive che ho descritte.” Mi ripeto, non va inteso come una semplice apologia. La bassezza di alcuni gesti, soprattutto se applicata alla massa, è propria dell’uomo comune. I temi toccati sono aurei: la memoria, la coscienza, il perdono, il giudizio, la coerenza, la forza e l’altezza morale. Ascrivo Levi a uno dei più grandi, se non IL più grande, scrittore italiano. Un uomo, uno scienziato, e uno scrittore capace di rendere umano l’inumano. “Il dolore è la sola forza che si crei dal nulla, senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare.”