John Steinbeck – Al Dio sconosciuto

Stette a lungo nella pioggia per esser sicuro che non era un piccolo acquazzone da nulla. Elisabeth chiamò ancora: “Joseph, prenderai freddo.” “Non si prende freddo così.” disse. “Fa bene.” “Ti germoglierà l’erba sui capelli, allora. Vieni dentro, Joseph, c’è una bella fiammata. Entra e cambiati il vestito.” Ma lui restava all’acqua, e solamente quando forti getti scesero lungo il tronco della quercia si decise a rientrare. “Sarà una buona annata” disse. “I torrenti del canyon saranno in piena prima della festa nazionale.” Elisabeth sedeva nella poltrona di cuoio; aveva messo lo spezzatino a cuocere lentamente sulla stufa. Rise quand’egli entrò: un senso di gioia era diffuso nell’aria. “Vedi che goccioli tutto sul pavimento, sul bel pavimento pulito.” “Lo so” disse. E sentì tanto amore per il suolo e per Elisabeth che attraversò la camera e posò la sua mano bagnata sui capelli di lei, come per benedirla. “Joseph, mi gocciola l’acqua giù dal collo!” “Lo so.” egli disse. “Joseph, la tua mano è fredda. Quando fui cresimata il vescovo mise la mano sulla mia testa come fai tu, e quella mano era fredda. Sentivo i brividi nella schiena. Credevo fosse lo Spirito Santo.” Sorrise felice, e si volse all’insù per guardarlo. “Ne parlammo, dopo, e tutte le altre ragazze dissero ch’era lo Spirito Santo. è passato tanto tempo, Joseph.” Tornò indietro col pensiero, e nel mezzo della sua lunga e stretta visione del tempo c’era sempre il valico bianco delle montagne, e anche quello pareva ormai molto lontano nel ricordo. Egli si chinò rapido e la baciò sulla guancia. “L’erba sorgerà fra due settimane” disse. “Joseph, non c’è nulla che sia più spiacevole di una barba bagnata. Sul letto ci sono i tuoi vestiti asciutti, caro” Tutta la sera egli stette sulla sedia a dondolo vicino alla finestra. Elisabeth gli dava occhiate furtive, e lo vedeva aggrottare il volto con apprensione se il tambureggiare della pioggia si affievoliva, e sorridere lievemente, rassicurato, se questo proseguiva più violento che mai. Sul tardi entrò Thomas, battendo i piedi e strofinandoli a terra sotto il portico. “Ecco che è venuta davvero” disse Joseph. “Sì, è venuta. Domani dovremo scavare qualche conduttura. Il recinto del bestiame è allagato. Dovremo asciugarlo.” “C’è del buon concime in quell’acqua, Tom, lo faremo scorrere negli orti.” L’acqua continuò per una settimana, a volte polverizzandosi in nebbia, a volte ridiventando acquazzone. Le goccioline curvavano la vecchia erba secca, e in pochi giorni spuntarono i minuscoli fili nuovi. Il fiume rombava dalle colline occidentali e crebbe oltre gli argini, schiomando i salici curvi sulle acque e gorgogliando tra i roccioni. Da ogni piccolo canyon, da ogni spaccatura delle colline un rigagnolo corse a congiungersi al fiume. I corsi d’acqua s’approfondirono e si riversarono nelle chiaviche. I bambini, che giocavano in casa e nel granaio, se ne stancarono di tutto cuore prima che finisse; e diedero noia a Rama perché insegnasse loro altri modi di divertirsi. Le donne cominciarono a lamentarsi dei panni bagnati appesi nelle cucine. Joseph, vestito di tela cerata, passava le sue giornate vagando intorno alla fattoria, ora facendo girare un paletto per vedere quanto fosse penetrata l’umidità, ora indugiandosi sulla riva del fiume a guardare la brughiera e i ceppi e i rami che passavano galleggiando. Di notte dormiva di sonno leggero, ascoltando la pioggia o appisolandosi, e si svegliava solo quando la forza dell’acqua diminuiva. Poi un mattino il cielo fu limpido e il sole risplendette caldo. L’aria lavata era dolce e chiara, e tutte le foglie delle querce scintillavano come verniciate. E l’erba stava spuntando; tutti potevano vederla, uno splendore di tinte nelle colline più lontane, una sfumatura d’azzurro in quelle più prossime, e sotto gli occhi i minuscoli aghi verdi che foravano il suolo. I bambini irruppero dalle loro gabbie come animali e giocarono freneticamente, tanto da esserne poi febbricitanti e da dover andare a coricarsi. Joseph portò fuori un aratro e rivoltò il terreno dell’orto, Thomas lo passò con l’erpice e Burton lo spianò. Sembrava una processione, ognuno era impaziente di affondare i suoi artigli nella terra. Persino i bambini chiesero un poco di concime per le radici e le carote. Le radici erano le più svelte a crescere, ma le carote avrebbero fatto un bel giardino se si aveva pazienza di attendere. E ad ogni ora l’erba cresceva e cresceva. Gli aghi divennero fili e ogni filo si suddivideva in due. Le sommità e i fianchi delle colline si fecero ancora morbidi, lisci e voluttuosi, e la salvia perdette la sua cupezza. In tutta la campagna soltanto il bosco di pini sulla cima di levante mantenne il suo broncio.

DUE PAROLE

Romanzo in cui Steinbeck pone l’uomo in balia del fato, di un dio, che parla e si muove attraverso la natura. In un racconto mistico, denso di rito e di cerimoniosità ancestrale, il protagonista va alla ricerca della sua terra e incontra un amarissimo destino. È la storia di un contadino che si trasferisce dal vermont alla California in cerca di verdi pascoli e della terra promessa. Ossessionato dai segni che la natura lascia alla sua interpretazione, il giovane arriva a realizzare il suo sogno: realizzare casa e famiglia. Sebbene i primi anni scorrano felici, l’epilogo della trama porta alla desolazione più completa di un uomo nudo solo e disperato. Morto infine. E come per sbeffeggio, o forse proprio come conseguenza, la natura torna a rianimarsi e rianimare nel momento steso della sua dipartita. Una tragica metafora dell’impotenza umana, ma anche un sottile richiamo a quei meccanismi invisibili, sottilissimi, e pertanto magici, che esistono fra l’operato dell’uomo, la sua morale e l’ambiente in cui vive. Un libro mistico, dicevo, a tratti paragonabile a spezzoni di realismo magico latino (mi si conceda l’accostamento anche se enormemente inappropriato). Una perla nera, che brilla di oscuro misticismo e odora di riti pagani. Da sottolineare la versione tradotta in italiano dall’illustrissimo Eugenio montale.