Tbilisi 16 Agosto

Addio, Azerbaijan. Non si usa quasi mai questa parola piena di fascino proibito, almeno non a voce. Io stesso, che avrei avuto occasione di pronunciarla un paio di volte in vita mia, non sono mai riuscito a scandirla per intero. Addio, è la paura di lasciare permanentemente qualcosa. Ed è buffo notare come, al contrario, la cosa non ci spaventi in egual maniera. Di quante cose ci facciamo carico in un’esistenza, di quanti pesanti mantelli c’intabarriamo, riflettendoci a dir tanto per un battito di ciglia? È la nostra indole, la nostra sana ingordigia umana. Una religione, una professione, un paese, una persona. Ti giri un momento e ti ritrovi ad averla accolta per sempre, finché morte non ci separi. È naturale esser più propensi ad accogliere che ad abbandonare, ci mancherebbe, in fondo ci vuole sempre meno coraggio, e non lo dico con sarcasmo. Cento metri di stretta salita fra vetri antiproiettile, una linea immaginaria, gli ufficiali in divisa, un paio di domande, un timbro verde. Ti giri, e l’Azerbaijan è alle spalle. Addio. Sta volta lo dico davvero, sottovoce. Addio luna dell’islam, addio cartelloni di propaganda presidenziale, addio petrolio. Addio Ramis, addio Guren e addio Naamik. Voltiamo lo sguardo e ci rendiamo conto che in pochi passi abbiamo cambiato orario, nazione e religione. La multi religiosa e pur cristiana Georgia ci accoglie con le sue quattro rosse croci sfavillanti che inchiodano quella di San Giorgio in altrettanti distinti quadranti. Un salto nel tempo, sessanta minuti smarriti nelle nostre elastiche convenzioni, un lunghissimo meridiano che spacca i due confini. Ci vuole poco, un passo, e si diventa altro. Eppure siamo sempre noi. Me lo aveva detto anche il lottatore sulla spiaggia levando l’indice al cielo, “Allah è uno”, faceva “o Dio”, guardava le nuvole. E a pensarci bene ha davvero ragione. La scelta si riduce sempre ad una sottile riga immaginaria. Credere o non credere. O da una parte o dall’altra. Non ha importanza da chi o da cosa, la scelta è sempre una, imperscrutabile: dento o fuori. Quante illusioni in questo pianeta, sembra ovvio, la realtà può davvero arrivare a non esistere. Ci sono le regole e gli accordi e le illusioni. Tutto funziona adagiato alla storia e sulle cause che nei secoli sono giunte a partorire le regole, gli orari, gli stati, le lingue e le razze. Persino la fede. La barriera che sfondiamo è invisibile, inventata. Così come lo sono state le nostre misere riflessioni sgorgate finora. La magia di esser stati in un luogo, o parte di esso, di averlo vissuto ed averne tratto l’essenza. Bugie? Cosa possiamo decidere noi? Che senso ha, in fondo, scrivere queste pagine? Come un racconto lontano, le decisioni che influenzano le nostre intere esistenze sono prese su tavoli solcati da ben altre linee. Le genti e il loro grappolo di libertà non sono altro che briciole da spazzare una volta spartito il tocco di pane caldo. Ma la realtà non la fanno né i panettieri, né gli affamati. La realtà è appannaggio di quei signori incravattati che abbiamo avuto la fortuna di osservare pochissimi giorni fa. Addio, allora, Azerbaijan. Ti lasciamo un pugno di mosche ed un pezzo di cuore. Quello che non siamo riusciti a raccontare o ad immortalare. Quello che porteremo silenziosamente dentro di noi per parecchio tempo, e restituiremo poi ai nostri cari in altre parole, gesti, sguardi, lamenti, o falsità. Terremo in tasca le briciole. Il lungo e travagliato percorso per lasciarti ci ha spossato. Ma ad ogni addio corrisponde sempre e comunque una nuova scoperta, e Tiblisi stanotte brilla già sotto le stelle.

-Postilla- Continua il nostro assurdo incontro di personaggi politici. Anche oggi, in Tibilisi, passeggiando per la prima avanscoperta della città vecchia, vediamo arrivare l’ormai svalutatissimo corteo di gorilla e pinguini. Un rabbino attende fuori dalla sinagoga. Flash e videocamere e cravatte sgargianti. Chiediamo, “chi è”? I bodyguard ripuliscono le foto del cellulare del Mattia Leonardi. Non si può fotografare, c’è il ministro degli affari interni israeliano Irakli Gharibashvili. Capperi! Con tutti questi pezzi grossi in giro cominciamo a sentirci delle piccole mosche.

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