Le due enormi spalle che reggono il peso della storia di Tbilisi si estendono a cavallo della Kira. Come enuncia il secondo postulato di Ridda, e come del resto ben tutti sanno, ogni grande città ha fondato le sue radici accanto ad un corso d’acqua importante. Non ne è da meno la capitale georgiana che si estende a perdita d’occhio lungo le pareti delle colline circostanti. Per chi volesse saperlo, Tbilisi è disordinata, guasta e fatiscente. Persino ieri, quando discendevamo le sue larghissime strade periferiche, il senso di decadenza era incredibilmente percepibile. Stanchi personaggi ai margini delle strade osservavano la nostra entrata con un velo di sospetto. Poltrone da salotto e panchine improvvisate accomodavano uomini dalle vesti sporche, le teste squadrate e i calzini marroni. La luce batteva su di loro morta, come un cane che non ha voglia di giocare. Tutto questo mentre ci perdevamo assieme al nostro tassista in un quartiere di gomme e gommisti. Potevamo scantonare lo sguardo in ogni via di quel dedalo per ritrovare gomme e ruote e gomme su gomme ed enormi copertoni neri ammonticchiati nelle vetrine di gommisti che aggiustavano gomme o cercavano di vendere gomme riparate a persone che facevano rotolare gomme bucate. Ne siamo usciti, è ovvio, ma ancora adesso questa città pare un guazzabuglio di mansioni improvvisate in competizione tra loro. Questa mattina ci svegliamo più tardi del previsto e partiamo alla scoperta della parte vecchia. E’ l’ultimo giorno in nostra compagnia del Matteo Angelino, domani prestissimo lo attende il volo che lo riporterà a casa. Iniziamo la scoperta di Tbilisi ritrovandoci per caso nella piazza principale, la piazza dove si erge e contestualizza il simbolo dell’intero stato, Giorgio che schiaccia il drago. E’ di poco lì avanti che ci imbattiamo in una curiosa bancarella di libri usati. Li scorriamo e facciamo due chiacchiere con il simpatico venditore, che cerca di rivolgersi a noi in francese. Io acquisto due libri (inaspettatamente in italiano con testo originale a fronte!) mentre il libraio mi canta degli antichi versi in un italiano sonante. Soddisfatti degli acquisti diamo un occhio all’infinità di chiese che offre il centro storico. Ci fermiamo a sbirciare una funzione ortodossa ricevendo schizzi d’acqua benedetta gettati dalla lunga frusta del cerimoniere. Fatto mezzogiorno ci ubriachiamo un pochetto dando largo ai discorsi più profondi che un caldissimo pomeriggio d’agosto abbia mai avuto la pena di sentire, e ripartiamo poi alla volta del punto più elevato della città. Il Matteo Angelino ha bisogno di stampare il suo biglietto ma il caso ha deciso di portarci altrove. Finiamo in un circolo di artisti che sfoggia come benvenuto un impolverato stendardo di Lenin ed altri manifesti comunisti all’interno della corte. Diamo un occhio ai quadri -non me ne vogliano, mediocri- e poi noto una scacchiera. Lancio la sfida e i ragazzi accettano. Sono gentili, discorrono delle mosse mentre giocherellano con tubetti di colori ad olio. Tocca a me, poi sotto al Mattia Leonardi. Li suoniamo ben benino. Prima di cena, ci rimane ancora un po’ da spendere con la moneta degli occhi. Raggiungiamo quindi a piedi, scarpinando, la chiesa più bella della città. Dalle porte spalancate corrono verso di noi nuove melodie, alle quali non eravamo più abituati. Litanie crude, disciplinate. Cori che, come bambini dispettosi, sembrano arrampicarsi lungo le altissime pareti per poi fare eco nel cielo privo di alcuna nuvola. La balconata enorme e desolata, un sole tiepido e rispettoso. Laggiù lontano, la vista della vecchia cittadina. Non sono più qui, come al solito il diario ribalta la realtà e in questo momento sto scrivendo dalla terrazza dell’hotel dalla quale vedo perfettamente, sull’altra collina, il posto non appena descritto. La notte sta già stendendo i suo tentacoli sull’orizzonte, il buio cala, ho appena letto uno dei libri acquistati. Lo ha scritto Galaktion Tabidze, poeta georgiano. Ha poche poesie, sono tradotte confusamente in inglese, francese, russo e italiano, in ordine sparso, è meraviglioso. Sfoglio la prima poesia e rimango folgorato. E’ molto triste, ma merita i miei famosi tre punti esclamativi, ed io vorrei leggervela e vi prego di provare a non percepirla con tristezza, bensì con tutta la passione che concedono il buio e, appunto, la notte. Quello che in questo momento non abbiamo con noi. Recita così:
“Io e la notte”
Mentre scrivo risplende
la mezzanotte, e l’ora si consuma,
e la fiaba dei campi
della finestra m’entra con il vento.
Non si libera il mondo
da questa coltre d’argento
che cala intorno alla luna.
E dondolano i rami
di lillà per quest’alito fresco,
ed il cielo è ferito
da molti lumi turchesi,
come cadenze dei miei versi in rima.
Pure, una luce più segreta,
più generosa, stanotte,
trafigge l’ampia distesa.
E’ tempo ormai che porto dentro il cuore
una cosa riposta,
che neppure la brezza sa carpire:
malinconica cosa
che è nascosta perfino agli amici,
che l’estasi financo non trova,
nè può farlo l’abbraccio,
tenerezza di donna,
o sospiro involontario
che m’agiti un tratto nel sogno,
o calice gonfio di vino.
Ma la notte lo sa, la notte chiara,
che da questa finestra
penetra: notte d’insonnia,
partecipe di tutti i patimenti.
E questa notte ed io
siamo in due sulla terra, e siamo soli.