Ieri notte, verso l’una, il Matteo Angelino ci ha salutati avviandosi verso l’aeroporto. Ha fumato il suo chilo di sigarette, ha chiuso lo zaino e ci ha abbracciato lasciando la porta numero 13 del l’hotel “city” chiusa dietro di sé. Come già era accaduto per lo spirito del Fred durante il mio secondo viaggio in Scozia, ho intenzione di portare il Matteo Angelino con noi fino all’ultima tappa di questo diario, perché un compagno di viaggio non si abbandona mai. Mai. In questa maniera eterea, inoltre, è ancora più facile portarcelo in giro visto che di lui non abbiamo che una nuvoletta, una sbuffata del suo amato golden Virginia e una sensazione di completezza data dai suoi infiniti ed enciclopedici racconti sulla fotografia, sui viaggi e sulla vita in generale. È facile vederlo ancora lì intento a punzecchiarsi la peluria della guancia, o a sistemarsi nervosamente gli occhiali da sole mentre è preparato a perdere qualcosa in giro per il mondo (tutto tranne la sua macchina fotografica), o a fabbricare una delle sue interminabili stortine che usa rizzare a bandiera per sigillare poi, prima di chiuderla, soltanto all’altezza del filtro. Proseguiamo. Dopo la giornata degli addii è anche logico aspettarsi quella degli arrivederci. Detto ciao al Matteo Angelino salutiamo anche Tbilisi che re incontreremo nuovamente come ultimissima tappa del viaggio. Arrivati alla stazione del minibus dopo una robusta colazione, contrattiamo il prezzo per scendere verso il confine sud della Georgia. Ci viene incontro un tozzo uomo paffuto con la voce di satana Mefistofele trismegisto ed un Rosario in mano. Ci fidiamo subito, litigando per il prezzo. Partiamo, tutti e quattro, alla volta della nuova capitale, la città che ci farà da base per l’intera visita armena, Yerevan. L’autista grufola frasi cavernose, la sua voce è profonda e gutturale, probabilmente un polipo in gola, o un fiore in bocca, per dirla alla Pirandello. La strada appena dopo il confine è scorrevole. Intorno a noi verdissime colline rigogliose di alberi a foglia larga ci rilassano più del previsto. Qui è lì, attorno, edifici dal sapore sovietico completamente abbandonati adornano la visuale. Vecchia bigiotteria paesaggistica piena di fascino spezza la pace della natura tramite invitanti rossi ruggine, e finestre bucate e ciminiere ingiallite dai vestiti cancerogeni. Dormo, mi sveglio, dormo, mi sveglio, un continuo. Mi rendo conto che tutto ciò che ci descrivo non è che un lampo, una quisquilia, e non ve l’ho ancora detto, lettori, ma grazie per fidarvi di me e delle mie descrizioni abbozzate. Lungo il cammino ci fermiamo a una pompa di benzina con una desolata veranda a strapiombo su un mare di alberi. Il vento fuma le nostre sigarette. Usciti dalla valle tappeti dei monti si srotolano e le praterie prendono piede come libere puledre al galoppo, inarrestabili e bellissime, con i loro crini biondo grano macchiati dall’ombra vastissima che proiettano le nuvole invidiose dal cielo. Ci guardiamo tutti e tre, nessuno parla, solo espressioni di stupore che curvano la bocca e trasformano la pelle in pallini di emozione lungo le braccia. Il tragitto iniziato questa mattina termina alle quattro di pomeriggio nel centro di Yerevan. Siamo scaricati in piazza da un altro signore, poichè l’autista dal fiore in bocca ci aveva scambiati con altri due passeggeri in direzione Tbilisi, chiedendoci di invertire le macchine al fine di risparmiare un po’ di sonno. Ha messo persino le mani unite di fianco alla guancia. Come al solito non abbiamo ancora un posto dove dormire e tentiamo in un paio di ostelli. Ne troviamo uno molto accogliente, dove tre ragazzi tedeschi stanno guardando apatici le gare di atletica lunghi distesi sul divano. Ci danno una cameretta rosa tenue, rosa pastello, copertine bianche, bomboniera armena spartana ma efficiente. Ci piace, sarà la nostra culla. C’è anche una sedia per la nuvola del Matteo Angelino. Troppo stanchi per rimanere in casa usciamo a perlustrare i vialoni griffati del centro, sino a giungere a piazza della repubblica. Tira un vento pazzesco, l’aria mi prende il cappellino e lo lancia in faccia ad un giovane signore con i baffi, ride. La piazza è piena di bambini che giocano sopra ogni sorta di mezzo a rotelle. Macchinine, trenini, bruchetti, motociclettine, pattini, addirittura cavalli a dondolo da lanciare al galoppo saltandoci sopra. E’ bella Yerevan, ha un’aria signorile ed europea, lontanissima da quello che era quel confuso agglomerato di calcinacci di Tbilisi. Ad ogni modo datemi tempo per parlarne, ce la teniamo ancora un po’ da scoprire nei prossimi giorni e intanto pianifichiamo le tappe di questo paese che sembra avere tutte le carte in regola per stupirci come si deve. Istintivamente, a naso, era quello che attirava di più le nostre attrazioni già da parecchio tempo. Non abbiamo alcun timore di rimanerne delusi. D’altronde cosa dovremmo fare, non fidarci di ciò che sussurra il cuore?