Vasilij Grossman – Stalingrado


C’è gente, però, che ritiene la consapevolezza del proprio scopo nella vita un ingenuo residuo del passato che si conserva per puro caso e senza necessità alcuna. È gente, questa, con l’animo tutto preso da emozioni e pensieri legati alle quisquilie del quotidiano; gente non incline alle trasformazioni interiori che, come le trasformazioni matematiche, riducano le grandezze casuali che complicano la sostanza dei fenomeni senza determinarli; gente non incline a ridurre, omettere, ignorare ciò che potrebbe e dovrebbe essere ignorato. Molti subiscono la malia della varietà di colori sulla superficie della vita. E in questa varietà non colgono l’unità intrinseca. È gente che capirà solo in punto di morte, nel momento fatale, quanto poco contino preoccupazioni occasionali, ingannevoli e che presto svaniscono, e solo allora tornerà a cogliere la cosa più semplice e importante, che a suo tempo era parsa ingenua o inaccessibile. Sono quelli di cui si dice: «Sulla via del tramonto capì che…», «Guardandosi indietro si rese conto e comprese…». È gente che nella vita vince battaglie piccole, ma di grande soddisfazione materiale. Però è anche gente che non vincerà mai la sua guerra con la vita, così come mai vincerà il comandante che non ha una strategia, che non è guidato e ispirato dall’amore per il suo popolo, che non ha uno scopo semplice e nobile: potrà strappare una città al nemico, potrà sconfiggere un reggimento o una divisione, ma non vincerà mai la guerra. Spesso la capacità di discernere fra ciò che è importante e ciò che di importanza è privo arriva tardi e non è più d’aiuto. È una capacità che si acquisisce quando si tirano le somme di una vita e si pronunciano parole amare che a nulla servono, ormai, parole come: «Ah, se mai rinascessi…». Ci sono caratteri e indoli per i quali questo sentimento semplice, terso come sanno essere solo i sentimenti di gioventù, radicato nel profondo del cuore e della coscienza, questa idea del senso e dello scopo della vita, è ciò che determina azioni, scelte, progetti – la vita intera. Sono caratteri e indoli che per buona parte lasciano una traccia nel consesso umano; le loro opere, il loro pensiero mirano a fare e a combattere, e non a faccende piccole e meschine, a movimenti molecolari che obbediscono solo agli interessi dell’oggi e che ne troveranno di nuovi l’indomani, quando gli interessi dell’oggi svaniranno. Un desiderio semplice come «voglio che chi lavora possa vivere libero, felice, ricco, e voglio una società libera e giusta» è stato alla base delle vite straordinarie di molti combattenti e pensatori rivoluzionari. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi e comprendere anche uomini di scienza, viaggiatori, agronomi, costruttori, irrigatori di deserti. Questo sentimento terso e puro come quelli di gioventù, oltre che la consapevolezza di un grande scopo, è anche di moltissimi sovietici, edificatori di un nuovo mondo: operai, kolchoziani, ingegneri, scienziati, insegnanti, medici… Che lo coltivano fino alla vecchiaia.

DUE PAROLE

Come spesso mi accade quando affronto un libro importante, inizio dalle banalità e da fatti noti, ritriti. La prima cosa che il lettore pensa dopo essersi addentrato nel testo è quella di essere di fronte, per mole e per imponenza, a un “Guerra e Pace” moderno. È così: i temi e i contorni sono proprio quelli del più grande romanzo ottocentesco. Si pongono infatti in piena evidenza i destini di tutte le classi sociali, si mostra come dal più eminente dei protagonisti alla più misera delle comparse, i destini degli uomini vengano posti di fronte alla storia. E che storia. La battaglia per eccellenza, l’agone dove si decise il futuro del ‘900. Nata come dilogia, Stalingrado fa quindi parte di un’opera gargantuesca che vede il suo seguito nel testo chiamato “Vita e destino”, fra l’altro la parte più celebrata e nota dell’autore. Stalingrado viene pubblicato in originale con il nome di “Per la giusta causa” ma è dato alle stampe italiane con il nome voluto da Grossman nelle sue integrazioni. La descrizione così viva e reale di ogni ambientazione è dovuta all’esperienza diretta dello scrittore che, per ben quattro anni, visse il conflitto in prima linea. Stalingrado, che si conclude con l’arrivo di Krymov sul Volga, non ci svela il risultato della battaglia. Non informa sui fatti dei libri, piuttosto su quelli della memoria e della strada. Degli sguardi e del sangue. Ci mostra in sospensione, come un immenso iato – così decostruito e atomizzato – tutto quell’epico spasmo vitale di una nazione (di un popolo, di una cultura) che deve vivere la guerra. La maestria di Grossman nel descrivere le situazioni capillari è oltremodo convincente e appassionante. Dal patriottismo allo scetticismo del popolo, dalla negligenza alla raffinatezza dei comandanti, dalla paura alla rabbia dei soldati, il romanzo accoglie e avvolge ogni angolo, ogni sospiro. E lo ingloba nella narrazione fiume. Il romanzo ci regala infine una prospettiva diversa, pregna di patriottismo e comunismo, regalandoci le voci e i pensieri (di solito filtrati dalla nostra critica occidentale) di chi in quei valori non solo ci ha creduto veramente ma ha altresì combattuto per difenderli. Non dimentichiamoci, leggendolo, che è un testo pubblicato quando ancora governava Stalin (breve esempio: la lettera struggente che Strum riceve dalla madre, e che molto probabilmente calca la vicenda reale della morte di quella dell’autore, non viene mai letta/riportata in Stalingrado perché poco gradita al dittatore che aveva inviso la causa semita. La lettera viene ripresa nel secondo romanzo, più libero dagli occhi della censura staliniana). Che, dunque, oltre ad essere passato sotto le forche della censura stalinista, ha battuto, con la sua forza e la sua bellezza, la patina ideologica post guerra fredda che ancora, assai spesso, ci cuce gli occhi. Questo, a mio personale giudizio, lo rende un testo ancora più incredibile e prezioso. Colossale.