Yasunari Kawabata – Il maestro di go

Si può dunque ben dire che nella sua ultima partita a go il maestro fosse perseguitato dalla razionalità dei tempi moderni che aveva ridotto il gioco a un insieme di regole cavillose; era ormai andato perso il senso del go come arte, la sua estetica, e il rispetto per gli anziani era stato negato, così come la reciproca stima dei giocatori per le loro qualità umane. La via del go non aveva più nulla della virtù e della bellezza dell’Oriente, soffocate dalla freddezza di conteggi e regole. Anche l’avanzamento nella scala dei dan che governava la carriera dei giocatori ormai non era che un computo di alta precisione, e in primo piano era assurto lo spirito di competizione, un agonismo il cui unico scopo era la vittoria, talmente esasperato da togliere ogni spazio alla riflessione sull’arte, alla sua fragranza. Non importava che il maestro fosse una personalità eccezionale: la modernità esigeva che si combattesse in condizioni di assoluta parità e Ōtake non era certo l’unico responsabile di una tale situazione. Il go si era trasformato in evento sportivo, in puro agonismo, e tutto il resto era soltanto una conseguenza.

DUE PAROLE

Arrivo alla scoperta di questa lettura incuriosito da un articolo sulla storica partita di go, crudelmente vinta dall’algoritmo alpha-go ai danni del campionissimo sud coreano Lee Sedong, che ha sconvolto gli sviluppi delle tecnologie basate su intelligenza artificiale. Ammaliato e affascinato da ciò che già gravitava da anni intorno ai miei interessi ludici personali, più precisamente gli scacchi, non ho potuto fare a meno di voler sapere qualcosa di più su questa arte. dico arte non a caso visto che il testo mi ha insegnato, proprio come prima cosa, come di gioco non si tratti, o fosse almeno inopportuno accreditarlo solo a questa categoria. Il Go è, in fondo, un gioco molto semplice: così descrivono le sue regole La regola della cattura è il go e il go è la regola della cattura: modello primordiale che esplicita le condizioni d’esistenza in un universo mutevole in cui le coppie libertà/vincolo e vuoto/pieno sono i motori primi di tre azioni fondamentali: installarsi, abitare, vivere.
Attenendomi alla trama, posso dire che si racconta semplicemente, in maniera quasi giornalistica, l’ultima partita e la successiva morte dell’invincibile maestro di go honinbo shusai, meijin della disciplina. Vale una pena fare un excursus proprio sul significato di meijin, peraltro titolo originale dell’opera. Letteralmente traducibile in “uomo brillante”, il meijin era una specie di ministro di discipline artistiche e di tradizione culturale giapponese (esistevano anche un meijin del shogi, per esempio, e uno per la cerimonia del tè), era insomma colui che portava il peso e la responsabilità di tutta la comunità. La portava a un tale livello mentale e di rappresentanza, che per un vero giocatore di go non risultasse più importante vincere o perdere, ma creare arte. Questo è un concetto molto sentito anche nel gioco degli scacchi, come dicevo, ma si percepisce in qualsiasi disciplina sportiva. Nelle migliori performance dei grandi campioni di qualsiasi sport e qualsiasi tempo, c’è infatti sempre – sempre – presente un’inafferrabile componente di bellezza che solo i maestri della disciplina riescono ad esprimere.
Non mancano, ovviamente, gli spunti filosofici “La sua mente non è costruita per l’astrazione, per il concetto: questa via alla verità gli è preclusa. Ma ha una passione e un vero talento per il particolare: lo ama, vi si immerge, lo ricrea. E il particolare, per chi sia sufficientemente particolare, è anch’esso una strada – si potrebbe dire la strada «naturale» – per arrivare alla realtà e alla verità”. Sotto questo punto di vista, come ben mostrato nell’estratto qui sopra, il testo può inoltre leggersi come la sfida generazionale che vede una categoria di giocatori, di giovani diversamente pensanti, minacciare la precedente. (La generazione, ovviamente, è anche sociale). Il nuovo che avanza, quel volgare e violento approccio agonistico che vuole imporre ad ogni costo il risultato piuttosto del metodo. Otake, lo sfidante del Meijin, è un talentuoso genio sopraffatto dalla sua forza. i segni di questa incontrollabile avidità di vittoria gli procurano poca compostezza e frequenti dolori di stomaco, probabilmente proprio per quella fame appena citata. Non è un caso che il titolo di Meijin non sia più stato usato, anche nella realtà, dopo questa storica partita. La fame di vittoria, ai limiti di forma di non rispetto verso l’avversario, ha travolto il buon senso. Si può forse dire che la produttività ha distrutto l’arte.