Yerevan 25 Agosto

L’altro giorno abbiamo avuto un leggero scombussolmento intestinale. La nostra guida cartacea è chiarissima: “In caso di mal di pancia si consiglia di bere molto e assumere liquidi zuccherini al fine di riabilitare l’intestino alle sue funzioni”. Siamo così usciti per andarci a sbronzare. Era, tutto sommato, l’ultima serata utile in Armenia e ne abbiamo colto l’occasione. Fra poco si ripartirà nuovamente e non potremo in alcun modo permetterci futili distrazioni. Armati di tutto punto, rimbalzati da parecchi locali per i nostri pantaloncini corti, abbiamo battuto a tappeto i bar del centro e raggiunto ancora un volta il nostro obiettivo. Quando siamo così determinati non ci ferma proprio nessuno. Sarebbe stato anche tutto molto bello se al mattino non ci avesse atteso l’inferno. Da un paio di giorni a questa parte Yerevan è diventata irresistibilmente calda. In camera abbiamo l’aria condizionata, ma abbiamo perso il telecomando per farla funzionare e, manco a dirlo, ci siamo dimenticati di comprare dell’acqua fresca per il risveglio. Il sole che entra dalle persiane ci sveglia strangolandoci alla gola. Riusciamo a levarci dal letto e, comunicando a gesti, pattuiamo di andare nel primo bar aperto a bere qualcosa di fresco, ma dimentichiamo lei. Nell’atto di mettere i piedi fuori dall’uscio sento il Mattia Leonardi venire risucchiato in cucina “Petit dejeuner, pozhaluysta!”, occhi tristi, “please”, occhi tristi. Non abbiamo scampo. Ci sediamo e fissiamo l’ovetto di fronte a noi. “Che facciamo?” mi fa il Mattia Leonardi. Proviamo ad escogitare un piano per non offendere la signora senza vendere troppo cara la pelle. Dico io “tiriamo l’uovo dalla finestra”, ma subito rimangio, non rimarrebbero tracce della scorza, e poi siamo al quarto piano. Medito seriamente di ingoiare, mentre il Mattia Leonardi si occupa dei due panini raffermi. Ne prende uno, lo apre, ci spalma burro e marmellata, e dopo averlo sigillato se lo caccia in tasca dei pantaloni. Di acqua fresca neanche l’ombra e la signora arriva claudicante senza essersi accorta di nulla. Nota l’appetito con cui abbiamo mangiato tutto e si rincuora compiaciuta. Siamo liberi, ci cacciamo nel primo bar per organizzare la visita pomeridiana e io ordino una bella colazione inglese con tanto di uova strapazzate. Prendendola comoda, ci sediamo a leggere e osservare le persone dal fresco parapetto del nostro ristorante preferito, infine ci muoviamo verso il punto di interesse di oggi, che è il museo del genocidio armeno. Viene difficile dirlo, e probabilmente suona persino altezzoso, ma la delusione è devastante. Incuriositi come eravamo, zuppi di umiltà per sapere poco, pochissimo, del massacro perpetrato, attentissimi al suono della loro campana, tutto ci saremmo aspettati, tranne che l’assoluta noncuranza con cui il luogo cardine della memoria è stato e viene gestito. Innanzi tutto è difficile arrivarci, poche indicazioni, poca visibilità. In secondo luogo sembra abbandonato a sé stesso. Arrivati sul luogo non riusciamo a capire quale sia l’ingresso e scambiamo un grosso complesso sportivo che avrebbe fatto luccicare gli occhi a Kubric dall’ansia espressa nelle sue geometrie interne, per il museo stesso. Come noi, altri visitatori vagano per il luogo senza indirizzo. Perdiamo molto tempo ma la vera rabbia monta quando scopriamo che oggi, causa motivi straordinari, l’intero museo è persino stato chiuso. E’ raggiungibile la fiamma eterna, che ci rechiamo a vedere, e basta. Il genocidio armeno è argomento complesso e controverso. Mi chiedo, anzi, chiederei volentieri a loro, se questo non sia il modo peggiore per sminuire la propria causa. Temo, mio malgrado, di vedere una parte del mio paese in questo menefreghismo, in questa deriva al non-impegno pubblico, alla dimenticanza, e me ne dispiaccio. E’ da queste cose che si vede la solidità di un popolo, la salute di una nazione. Checché ne dicano gli studiosi, qualche pagina di storia, a volte, può anche essere scritta dai perdenti. Nel caso in cui questo fardello pesi talmente tanto nel proprio passato da avere difficoltà a portarselo appresso, è bene ricordare come gli unici traini della memoria siano i simboli ed il loro intrinseco valore. E che per far sì che essi si rigenerino, al fine di mantenersi vivi o immortali nel tempo, questi debbano in primo luogo essere rispettati.

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