
Era un siluro, e si stava avvicinando velocissimo. Seicento miglia. Cinquecento. Trecentocinquanta. Fendeva l’acqua sonnolenta. D’istinto Morris gridò gli ordini per tutto il ponte, dando l’allarme di impatto imminente. Le sirene risuonarono ovunque sulla nave. Hunt, invece, rimase immobile, restavano solo pochi secondi. Si sentiva stranamente sollevata. L’avversario aveva fatto la sua mossa. Adesso stava a lei. Ma il siluro puntava al Wen Rui o alla sua nave? Chi era l’aggressore dei due? Su questo non ci sarebbe mai stato accordo. Il genere di divergenze con cui si giustificavano le guerre. In pochi avrebbero potuto prevedere le conseguenze di quel primo attacco, ma Hunt era tra quei pochi. Vedeva gli anni a venire chiari come quel siluro, ora a meno di cento miglia rispetto al fianco destro del John Paul Jones. Ci sarebbe voluto un po’ di tempo per stabilire di chi era la colpa di ciò che era accaduto quel giorno. Prima la guerra, poi il vincitore avrebbe assegnato le responsabilità. Così era e così sarebbe sempre stato. A questo pensava Hunt quando furono colpiti dal siluro.
DUE PAROLE
C’è poco da aggiungere alla descrizione di un romanzo che l’etichetta per eccellenza di questo genere già sommarizza più di qualsiasi altro giro di parole: apocalittico. L’autore gioca sulla vicinanza della sua predizione per garantirsi una tensione narrativa maggiore, sostenuta da una discreta sicurezza nel ritrovare d’attualità lo scenario tecnologico in campo (non siamo quindi nella sfera della fantascienza). È un libro hollywoodiano, costruito su cliché notissimi, direi fin passati (wreck il pilota indomito asso dell’aviazione, lin bao eliminato dell’oscura macchina burocratica cinese, l’immigrato che comunque ha raggiunto le stanze dei bottoni dell’intelligence statunitense, etc etc). Insomma un testo che vuole vendere e intrattenere, non certo sforzarsi a dire.