
Gli era sembrato che la lancetta si muovesse più lenta del solito. Dai, dai. Era arrivato all’angolo in tempo per vedere il Txato tornare in macchina ed entrare nel garage. Il piano: all’uscita gli sarebbe andato incontro e l’avrebbe giustiziato. Un colpo gli sembrava poco. Meglio andare sul sicuro in caso la vittima dovesse riconoscerlo e sopravvivere. Poi, senza indugi, ma nemmeno con una corsa sventata che avrebbe potuto attirare gli sguardi dei vicini, si sarebbe diretto verso il luogo dove Patxo lo stava aspettando con la macchina. Il Txato aveva tardato a uscire dal garage. Cosa aspettava? Forse sperava che da un momento all’altro smettesse di piovere? Quello che si stava bagnando era Joxe Mari. Si era addossato al muro, all’angolo del palazzo, per prendere meno pioggia possibile. Sapeva che il garage non ha una porta posteriore, per cui prima o poi il Txato dovrà uscire in strada per incamminarsi verso casa. Ed era uscito, senza ombrello. Eccolo lì, mentre si riempiva i polmoni con le ultime boccate d’ossigeno della sua vita, a circa dieci passi di distanza. E aveva, visto di profilo, mentre girava la chiave, un leggero movimento/tremito alle labbra come di chi parla da solo o canta tra sé. Non appena aveva cominciato a camminare, mi aveva visto. La Browning impugnata nella tasca e il Txato, cosa fa, cosa accidenti fa, attraversa la strada e viene dritto verso di me. La scena non era prevista nel copione. «Ehi, Joxe Mari. Sei tornato? Sono contento.» Quegli occhi, quelle orecchie enormi, quell’aria amichevole. L’amico di suo padre che gli comprava i gelati quando lui era bambino. La campana della chiesa aveva battuto l’una. Quel rintocco familiare, metallico, perentorio, gli era risuonato uguale alla parola no. Non farlo. Non ucciderlo. Erano rimasti muti uno di fronte all’altro. Ed era evidente che il Txato aspettava una risposta alle sue parole gentili. Sono un membro dell’ETA e sono venuto a giustiziarti. Ma non glielo aveva detto. Non gli era venuto. Là in alto la campana aveva suonato un no. Era il Txato, cazzo. I suoi occhi, le sue orecchie, il sorriso. E Joxe Mari si era voltato e se n’era andato, non di corsa, quello no, ma a passo sostenuto.
DUE PAROLE
Come due emisferi dello stesso cervello, come Ying e Yang della stessa materia, le due famiglie protagoniste di questo intensissimo romanzo compongono l’interezza di un insieme che le domina, le circonda e le assorbe completamente nel suo vortice distruttivo. È il terrorismo, con la sua ideologia e l’ottusa determinazione del proprio obiettivo a disintegrare completamente le vite di chi passa attraverso. Nell’agone della lotta, le squadre si delineano in maniera arbitraria e molto grossolanamente, c’è chi sta dalla parte della causa e chi no. Questa frizione evidenzia, anzi, esplode l’insensatezza di alcune gesta. La morte del Txato, vicenda attorno alla quale ruota tutto l’intero romanzo, è la dicotomia per eccellenza. Ovvero quella di una causa armata che arriva ad uccidere un membro della propria comunità, un “basco d’eccellenza”, pur di portare avanti la lotta. Come un tossico che, giunto alla dipendenza dalla propria droga, non distingue più la volontà dalla causa ma non fa altro che protrarre il suo cieco desiderio di continuità. La cecità di qualsiasi mafia è costituita proprio da questa incredibilmente stupida e miope necessità, quella di sostentarsi. Un pizzo non pagato diventa così un affronto all’obiettivo finale, alla libertà di “Euskal Herria”. Come contagiati da una malattia quindi, tutti i singoli protagonisti della vicenda si ammalano e si incancreniscono. Sebbene il morto più evidente sia e rimanga il Txato, anche tutte le persone che lo circondano (o che lo hanno circondato) deperiscono, appassiscono, avvizziscono. La separazione di due famiglie che prima non solo si conoscevamo, ma si amavano e frequentavano anche, è simbolica di ciò che spesso viene definito con il chirurgico e precisissimo termine di “guerra intestina”. Romanzo notevole, ben scritto. Degno compagno di eccellenza narrativa e di insegnamento di “non dire niente” di Patrick Radden Keefe.