Alessandro Barbero – Le ateniesi

Mentre Eubulo raggiungeva Crizia e tornava a sdraiarsi sui cuscini accanto a lui, gli schiavetti annacquarono il vino, riempirono la coppa e la porsero al padrone di casa. Eubulo bevve, e dopo di lui tutti gli altri, a turno, via via che l’unica coppa faceva il giro della sala, sempre riempita fino all’orlo dagli schiavetti ogni volta che un ospite aveva bevuto. «L’inno!» ordinò Eubulo, quando il giro fu finito. Gli schiavetti, subito imitati dagli ospiti, intonarono l’inno a Dioniso. Crizia cantava a mezza bocca, lo sguardo fisso davanti a sé, e intanto si chiedeva: chissà quanti di loro ci credono davvero, e quanti invece, come me, sanno che è una buffonata. Gli dèi non ci sono, li abbiamo inventati noi, perché gli uomini non possono vivere senza credere che c’è qualcuno più potente di loro, che può proteggerli… Ma questi non erano pensieri che potesse condividere con Eubulo, che cantava deciso, lo sguardo brillante d’orgoglio. Del resto, un padrone di casa che invita e spende del suo può forse fare diversamente?

DUE PAROLE

Dirò immediatamente una banalità mostruosa: leggere un romanzo scritto da uno storico comporta inequivocabilmente il piacere e il vantaggio di incuriosirsi su modi e usanze, forse anche più fatti, che uno scrittore di “fantasia” non può certo permettersi di propinare. Colto prima dal carisma del personaggio, che dai suoi titoli in narrativa, sono arrivato alla lettura di Barbero proprio grazie alla sua fama di divulgatore. Le ateniesi è, come credo di evinca dal titolo, un romanzo ambientato nella Grecia della grande rivalità fra Atene e Sparta. L’autore mette in scena due storie che si intrecciano fallicamente (perché il “peòs” è motivo e fulcro e feticcio della maggior parte degli intrecci ideologici della vicenda) e vede protagonista le donne. Il romanzo è dunque una storia bicefala, una moneta dalle due facce: la tragedia –vera- delle giovani ragazze rapite e seviziate, e la commedia – falsa- degli attori travestiti che inscenano un esilarante teatrino politico dai colori volgari e dalle caricature spintissime. Dice Barbero “Ma nella commedia le emozioni non devono mai librarsi troppo in alto, bisogna subito sgonfiarle con l’ironia: mica è la tragedia!” Così, durante l’atto della commedia, si perpetra la tragedia, nella vecchia morale di una generazione di vecchi, o legati a un modo di pensare conservativo e tradizionale, abbandonano il focolare domestico lasciando le figlie, la nuova e ingenua generazione, alle grinfie del nemico. Nemico, Sparta, che forse potrebbe anche andare bene all’uomo medio, ma che l’inossidabile difensore della democrazia, il vero ateniese, non comprende. “Come i vecchi”, annuì Polemone “Se non facciamo tornare i giovani a casa, allora sì che la democrazia rischia. Chi la difende, ora, le nostre figlie? Le vecchie? Queste sono cose che vanno bene nella commedia” si chiede uno dei protagonisti. Ed è proprio qui che il ruolo delle donne entra in gioco. È qui, in un immaginario palcoscenico di migliaia di anni fa, che nasce il riconoscimento del valore femminile, di quel paritetico senso di appartenenza ad una comunità, ad una civiltà o ancora, molto più semplicemente, alla società.