
Lo so, li vedo qui davanti a me, li conosco a memoria: sono gli uomini della guerra. Della guerra o del suo mito. Li desidero, come il maschio desidera la femmina e, insieme, li disprezzo. Li disprezzo, sì, ma non importa: un’epoca è finita e un’altra è cominciata. Le macerie si cumulano, i rottami si richiamano a vicenda. Io sono l’uomo del “dopo”. E ci tengo. È con questo materiale scadente – con questa umanità̀ di risulta – che si fa la storia. In ogni caso, questo ho davanti. E alle spalle niente. Alle spalle ho il 24 novembre del millenovecentodiciassette. Caporetto. L’agonia della nostra epoca, la più̀ grande disfatta militare di tutti i tempi. Un esercito di un milione di soldati distrutto in un fine settimana. Alle spalle ho il 24 novembre del millenovecentoquattordici. Il giorno della mia espulsione dal Partito socialista, la sala della Società umanitaria in cui maledissero il mio nome, gli operai di cui fino al giorno prima ero stato l’idolo che si atterravano a vicenda per aver l’onore di prendermi a cazzotti. Ora ricevo ogni giorno i loro auguri di morte. La augurano a me, a D’Annunzio, a Marinetti, a De Ambris, anche a Corridoni che è caduto quattro anni fa nella terza battaglia dell’Isonzo. Augurano la morte ai già morti. A questo punto ci odiano per averli traditi. Le folle “rosse” presentono l’imminenza del loro trionfo. In sei mesi sono crollati tre imperi, tre casate che governavano l’Europa da sei secoli. L’epidemia d’influenza “spagnola” ha già contagiato decine di milioni di vittime. Gli avvenimenti traducono sussulti apocalittici. La settimana scorsa a Mosca si è riunita la Terza Internazionale comunista. Il partito della guerra civile mondiale. Il partito di quelli che mi vogliono morto. Da Mosca a Città del Messico, su tutto l’orbe terrestre. Inizia l’epoca della politica delle masse e noi, qua dentro, siamo in meno di cento. Ma anche questo non importa. Nessuno crede più̀ alla vittoria. È già̀ venuta e sapeva di fango. Questo nostro entusiasmo – giovinezza, giovinezza! – è una forma suicida di disperazione. Siamo con i morti, rispondono loro al nostro appello in questa sala semivuota, a milioni. Giù in strada le grida dei garzoni invocano la rivoluzione. Noi ridiamo. La rivoluzione l’abbiamo già fatta. Spingendo a calci questo Paese in guerra, il 10 maggio del millenovecentoquindici. Ora tutti ci dicono che la guerra è finita. Ma noi ridiamo ancora. La guerra siamo noi. Il futuro ci appartiene. È inutile, non c’è niente da fare, io sono come le bestie: sento il tempo che viene.
DUE PAROLE
Si dia lode a
Scurati per aver prodotto un romanzo, che le copertine indicano più specificamente
come “romanzo documentario”, che ha il potere di farci riscoprire con passione
una parte fondamentale, forse la più importante, della storia italiana. “M”,
prima parte di una già annunciata trilogia (vincitore nell’anno in cui scrivo
del premio Strega), racconta l’ascesa mussoliniana alternando la tecnica sopra
descritta (ovvero una specie di improvvisazione della realtà molto fedele a ciò
che la storia ci ha lasciato) coadiuvata da stralci articoli di giornale,
corrispondenza epistolare, lacerti di diari personali e telegrammi, in un
periodo che va dal 1919 al 1924, poco dopo l’omicidio Matteotti. Scurati compie
un grande lavoro storico, innanzi tutto. Punzecchiato anche da alcune critiche del
dettaglio, il testo ha retto in ogni caso all’impatto della verità e, si dice,
ha ridotto le inesattezze, o comunque le interpretazioni contestabili, a una misera
manciata. Una quantità irrisoria, se pensiamo che il testo ci viene offerto in
un volume di quasi ottocentocinquanta pagine. Al ricamo storico, vorrei
aggiungere di mia sponte un altro omaggio. Non solo per il coraggio espresso da
una pubblicazione tanto delicata (parlare di fascismo in Italia rischia sempre
di attirare invidie o inimicizie) ma per la patina di uniformità con il quale
lo scrittore dipinge i personaggi. Non considerabile, forse, un libro
super-partes, ma riesce a mio avviso a smarcarsi da quella involontaria
creazione di idoli da grande schermo che ormai viene spontaneo divinizzare. Sarebbe
davvero curioso, ma so che è impossibile, vedere l’effetto che una serie televisiva
(ahimè oggi oppio delle nazioni) potrebbe avere sul popolino.
Torniamo al testo. La bellezza del romanzo ci restituisce un’immagine più vera
e umana di alcuni ingombranti personaggi storici del primo novecento. Si
elencano avvenimenti che hanno come protagonisti Giacomo Matteotti, Amerigo
Dùmini, Italo Balbo, Leandro Arpinati, Nicola Bombacci, Margherita Sarfatti,
Gabriele d’Annunzio, Vittorio Emauele III e altri ancora. Potrei citare
l’esempio del capitolo che inizia con la puzza di piedi del duce, scalzo, nella
sua stanza d’hotel mentre aspetta l’esito di un importante risvolto elettorale.
È così che Scurati stiracchia la libertà autoriale. È impossibile non pensare
che il Mussolini, in un momento di pausa privato, non si fosse mai levato le
scarpe. E questa è invenzione, è palese, non è certezza. Ma non appena si
smette di parlare della maleolenza e si passa al contesto storico, tutto torna
insindacabile. Il meccanismo è brillantemente riuscitissimo (mi si passi il
superlativo per stare in tema con il verbo fascista) e svincola l’opera dall’etichetta
di “biografia”. Mi è anche di gradimento, nonostante non sia mai stato avvezzo
alla lettura dei contemporanei, il successo editoriale. Che gli italiani
leggano ciò che abbiamo passato non appena cent’anni fa, è cosa buona e giusta.
Lo dico, e ne sono consapevole, con l’ingenuità dell’ottimista.
Il libro consente di aver anche spunti più alti, e non pochi. Carpire il punto
di vista di chi sta al comando redistribuisce un idea differente dei valori e
della realtà. Le concause che hanno portato l’Italia al baratro del fascismo
sono state molteplici e complesse. La stessa marcia su Roma, che dai miei
ricordi scolastici veniva liquidata come la marcia di poche migliaia di povere
persone e di parecchi invasati, viene restituita al lettore con tutte le tacche
e tutti gli ingranaggi che hanno fatto scoccare l’impresa. Il Fascismo,
insomma, non è stata una presa di posizione violenta e brutale, inaspettata,
bensì un lento sviluppo di connivenze e situazioni irrisolvibili che hanno
inoculato nel paese la necessità di doversi ammalare per essere più fortemente
curato. Il circo polito attuale è un diluito ripetersi di quanto già avvenuto
in passato. So che è banale affermare che la storia si ripete (la prima come
tragedia, le seconda come farsa) ma leggere aiuta a riempire di significato
quest’asserzione. Lo ripete più e più volte Scurati, esasperando la dote
teatrale del suo meta-Mussolini: la necessità di un palco e l’abilità teatrale.
La politica è spettacolo, è commedia, è recitazione ma –soprattutto-
interpretazione (parola quanto mai utile nella sua polivalenza). Rivivere il
fascismo attraverso queste pagine, riviverne la sua incubazione, ci aiuta a
capire quali anticorpi sviluppare. Un punto di vista alto ed eterogeneo. La
descrizione delle ragioni contadine e socialiste e l’anti-ragione dei bruti
Arditi. La forza è pensiero e azione. Tantissimi degli slogan fascisti, così come
tantissime chiose dell’autore stesso, spiegherebbero perfettamente la maggior
parte delle filosofie aziendali. Laddove vi è una volontà di continuo riciclo e
mantenimento del potere, queste lezioni tornano quanto mai utili e profetiche.
Un libro, insomma, che ci aiuta a comprendere anche il mondo moderno e i
meccanismi più alti del potere. Se è vero che si impara dagli errori, questo
libro non può essere altro che un valido aiuto per la debole Italia. Errori o
imprecisioni a parte.