Sui sentieri del monte Aragat, tra la fortezza di Amberd e il lago di Kari, c’è un cavaliere. Non è come quelli che avete visto nei film americani, questo è sporco e povero e disarmato, ma non è nemmeno il Don Chiscotte. Corre sul suo cavallo bruno che sbuffa umido sudore dalle froge. Lo scudiscia con una lunga frusta rossa, lo sprona. Non ha la postura regale di un templare, o di un maestro d’armi, non ha staffe né sella, solo morbide briglie. E’ un cavaliere pastore dell’Aragatsotn che fa ritorno al proprio campo dopo aver accudito le vacche nelle pietraie. Lo rincorriamo sino a quando non giunge alla sua tenda, probabilmente dalla sua famiglia. Alziamo la mano per salutarlo, e ci risponde con uno schiocco di corda. Siamo nel suo regno, in un mondo parallelo e spartano, che oggi abbiamo scoperto con emozione infinita. Dal cervello cosmopolita e caloroso della vecchia cara Yerevan, siamo partiti per il cuore freddo e abbandonato di questo stupendo paese, arrampicandoci attraverso i campi nomadi dei pastori, fino alla cima più alta, l’Aragat. Oggi alla guida del vascello cigolante c’è il Mattia Leonardi, se la cava bene, benone. La strada non è delle più accoglienti, il motore fischia come un treno a vapore. Ci fermiamo incuriositi da una roulotte spaccata in due, accostiamo. Quattro uomini nei campi gridano frasi incomprensibili, che suonano però molto amichevoli. Scendiamo e andiamo loro incontro. Ci accolgono tra le loro macerie un giovane sbarbato e un cagnolino pulcioso privo di orecchie in vena di giochi. Lo accarezziamo schifati. Parliamo con loro ma senza capirci, riusciamo comunque a strappare la direzione per Amberd, li salutiamo e riprendiamo il percorso. La fortezza che vogliamo raggiungere è arroccata a duemilatrecento metri. C’è un rimasuglio di mura, particolare per forma e colore tetro e, ovviamente, una chiesa a strapiombo sulla vallata. Lontano, nell’orizzonte, si scorge il bellissimo osservatorio astronomico che brilla con la sua calotta metallica. Dopo un breve pasto confezionato torniamo all’incrocio cardine della salita e, imboccata la sinistra, iniziamo la più consistente arrampicata. Questo è il vero regno del cavaliere. E’ proprio lui ad aprirci la strada alla meraviglia spuntando al galoppo sul selciato. La via è sgombra, silenziosa e i paesaggi intorno sono sterminati. Campi nomadi riempiono di colore la valle con le loro tende blu e gli steccati in disgregazione. Decidiamo di fermarci nel centro di una vallata immensa, poco dopo il castello del cavaliere. Ci avviciniamo guardinghi alle baracche e notiamo che la comunità è al lavoro. Stanno mungendo le capre. Ci salutano, non sono timorosi. Nel grande cortile terroso il gregge viene bastonato dalla donna di mezzo che nel frattempo regge in braccio un pargoletto imbacuccato. Nella strettoia di uscita, la matrona strizza le mammelle delle caprette insofferenti mentre un giovane seduto poco di fianco a lei blocca ogni ovino saldamente, vincolandogli il collo con il braccio. Li fotografiamo e loro continuano a parlare fra di loro, ogni tanto un sorriso. Ripresa la via giungiamo senza poca fatica alla cima. Siamo intorno ai quattromila metri, parcheggiamo la macchina e diamo sotto ai garretti, scarpinando verso la cima. Sotto il tetto innevato dell’Aragat c’è un laghetto piccolo e adombrato. Mi ci bagno le mani immaginando un freddo glaciale ma l’acqua sembra quasi mite, accogliente. Prendiamo una foto scattata dal Matteo Angelino e saliamo ancora un poco, proprio in mezzo al grande prato panoramico, al fine di distenderci supini sotto le nuvole. Si muovono lente lente e io e il Mattia Leonardi ci guardiamo e non c’è bisogno di parlare per capire quello che stiamo provando e non c’è nemmeno bisogno che cerchi di spiegarvelo così su due piedi perché rovinerei tutto e se proprio siete zucconi sono convinto che in realtà sappiate già dentro di voi la soluzione quale sia e che un luogo vale l’altro e che anche voi, mille volte o più, l’abbiate già provata nella vita e ammetterete che quando si vuole risentirla non resta che una sola cosa da fare ed è molto semplice e si tratta di andare sotto al cielo e chiederlo ancora una volta alle nuvole.