Lo diceva anche Céline: la cosa più difficile ed importante, quando si scrive, è iniziare. Una volta che si ha la prima frase accattivante, il primo cazzotto allo stomaco, si va lisci come l’olio. Lisci, oddio, lui sicuro ci andava -mentre il sottoscritto continua ad arrancare- ma con un po’ di arroganza potrei dire che anche per me valga la stessa regola. Quello che in musica chiamano attacco. Quando giro per i posti che io il Mattia Leonardi e il Matteo Angelino stiamo visitando, penso spesso a come iniziare la pagina del diario. Ci sono cose, come vi ho già detto, che non si riesce proprio a scriverle, anzi a descriverle. Altre che con un pizzico di licenza poetica in più prendono pieghe inaspettate e bellissime. Ecco, queste pagine sono una cosa molto simile agli origami, dei fogli bianchi ed intonsi dalle infinite potenzialità, contestualizzati rozzamente dalle mie piegature. Linee, linee, sempre linee. Se oggi vi dovessi disegnare quelle incontrate, partirei dalla cima, dal monastero che abbiamo raggiunto in auto, ma voglio andar con ordine, in fondo mi sono appena sbilanciato sugli inizi. Yerevan, dicevamo ieri. Il cuore dell’Armenia e il cervello del paese. Anche qui, confusamente, logica e sentimenti si spartiscono lo stesso regno. Yerevan, incipit della breve storia che ci condurrà fra circa una settimana a nord ovest e ad un altro addio. Yerevan, città dal traffico ragionevole. Sì, per godercela meglio abbiamo deciso di narrarvela in macchina, guidando. Ma non solo la città, sia chiaro, l’Armenia tutta. Così, sotto i raggi di un primo sole mattutino già afoso, ci rechiamo ad affittare una macchina. La destinazione l’abbiamo già e qui devo assolutamente ringraziare il Sig. Garen Kokciyan che mesi fa ha inondato la mia casella email di preziosi suggerimenti. Siamo diretti a Geghard, con un’altra tappa di mezzo. Consegnateci le chiavi faccio il segno della croce ed armeggiando, suonando di clacson, andando di fine tacco punta come un ballerino del tip tap, porto i ragazzi in piena campagna. Prendiamo numerosi insulti (credo) per l’andatura turistica che impongo al nostro vascello. Sbraitino pure, abbiamo intenzione di goderceli fino all’ultima goccia, i paesaggi. Inoltre le strade richiedono un’attenzione più grande del previsto. Sebbene siano sgombre e quasi desertiche, si rivelano a dir poco equestri per percorrenza e solidità. Come un puzzle di un giocatore mediocre (i forti uniscono per colori contigui) la carreggiata manca, ogni tanto, di asfalto senza una ragione. A mezzogiorno spaccato siamo all’intermedio corretto. Il tempo di Garni è una caramella di piacere da gustare senza fretta. Il sito è piccolissimo e alla fine del brevissimo ciottolato si erge subito questo cubo ellenico, meraviglia di compattezza. Ci arrampichiamo sui quattro scaloni che conducono all’unico minuscolo e sonante androne centrale. Sul palco cinque sfavillanti donne armene stanno per iniziare un concerto di musica tradizionale. Ci fermiamo a sentirle mentre il sole cade perpendicolare dall’unico buco nel tetto, dritto dritto, e di pari passo i nostri peli, dritti dritti, si alzano a salutare le emozioni che quelle ugole riescono a causare dietro la pelle. Finirà che anche oggi ci dimentichiamo di mangiare. Saltati nuovamente in macchina la destinazione principale è di poco lontana. Meno di una dozzina di chilometri. Si tratta del monastero di Geghard, un’antichissima costruzione ricavata dalla roccia che esce dalla montagna per trasformarsi in chiesa. Qui i monaci praticavano l’ascetismo e ancora riusciamo a notare le grotte sulle splendide guglie circostanti in cui questi uomini di riflessione venivano a meditare. Entrando nel grande cortile facciamo la conoscenza di un giovane prete della chiesa apostolica armena. Parla incredibilmente bene italiano e, dotato di gran pazienza, risponde alla cascata di domande che gli facciamo. Ha un bell’aspetto, curato, una barba accennata, la lunga riga da parte e l’abito lustro e nero. Racconta le cose con la serenità della pace interiore. Ci dice che Geghard significa lancia, proprio quella lancia, quella che aveva trafitto Cristo in croce e che forse era perfino stata conservata nel monastero. Ci dice che le differenze con la chiesa apostolica romana sono poche, pochissime. Su tutto, loro non danno così importanza alla verginità della Madonna. Conta il dopo, ci lascia intendere il prete, e visto che credo molto più nelle scelte che nel destino, la loro visione mi sembra modo molto più sensato di accettare la vita. In secondo luogo, non diluiscono il vino con l’acqua. Lì quasi vorrei stringergli la mano. Poi, parlando di perdite e personalità forti, dice una cosa di una banalità incredibile, utilizzando però una metafora che ancora mi lascia qui a pensare. “Ti accorgi del valore di qualcosa solo quando lo perdi” dice “come i pesci nel mare” dice “tutti sanno come si contorcono quando li lasci sulla spiaggia”. E’ quell’immagine dei pesci che boccheggiano mi perfora il cranio. Non l’avevo mai vista in questi termini, ma è esattamente così. Un soffocare al contrario, un dolore o uno sconvolgimento talmente forte da non far altro che provare a nuotare sulla terra, senza ossigeno, senz’acqua. Una beatitudine talmente ingenua e naturale nel nuotarci in mezzo dal privarci dell’ipotesi di poterne un giorno rimanere senza. E’ forte, il prete. Ha un crocifisso tatuato sull’anulare sinistro e mi piace pensare sia sposato con Dio. Non gli chiedo niente. Forse, lui, il suo mare l’ha trovato. Chissà quanti di noi, invece, si sentono lì a bruciare su una spiaggia.