Carlo Sgorlon – Il vento nel vigneto


Il lavoro faticoso lo faceva sudare e la polvere dell’intonaco sbriciolato si mescolava col sudore. Ogni tanto si guardava i calzoni e la giacca impolverati, ma non ci badava perché quello era lo sporcarsi di chi lavora, che ben non dava fastidio ma anzi metteva allegria. Ben presto riprese la mano a quel mestiere, che aveva fatto sporadicamente, da giovanotto, e anzi se lo ritrovava dentro tutto, particolare per particolare. Lavorando dimenticava i suoi pensieri. Tuttavia la sua attenzione era dedicata al muro, che volva fare a regola d’arte e con minima spesa. Soprattutto voleva che l’oste fosse convinto che non aveva collocato male la sua fiducia. Solo ogni tanto rifletteva che in quattro o cinque giorni quel lavoro sarebbe finito, e poi tutto sarebbe tornato come prima. Eppure era già un cominciare. Il lavoro era una grande cosa. Anche quando stava dentro, solo il lavorare, il costruire qualcosa con le mani, i tanti mestieri che aveva fatti lo avevano aiutato a non diventare matto e a conservare la dignità.

DUE PAROLE

L’etimologia di Eliseo traduce il significato di questo nome come “Dio è salvezza”. E il romanzo parla infatti di salvezza, del percorso di un vecchio ergastolano che ritorna alla vita, graziato da un indulto, e delle fatiche che compie per redimersi socialmente ed economicamente. L’impronta religiosa è presente ma non preponderante, nonostante l’autore disponga del significato proto-cattolico della croce come fardello eterno da portare con fatica, dignità e senso del dovere. In questo messaggio è già presente tutta la cultura friulana e il testo può dirsi la maggior espressione, direi meglio descrizione, della tradizione di questo infaticabile paese. Il romanzo, oltre che esprimere chiaramente i valori di questa gente, ne esalta anche il modo in cui questa considera il proprio territorio e le proprie origini. Un attaccamento viscerale alla terra, trasposto nel testo nell’impossibilità e nel completo rifiuto di Eliseo di andare a compiere la propria vita altrove. Nonostante il finale aperto, il romanzo risulta tragico e i principali protagonisti vivono ognuno la propria tragedia con quella dignità cristiana (nel senso proprio del Cristo) sopra citata. La medicina a ogni male, la soluzione ad ogni problema sembra essere solo e soltanto il lavoro. Con il suo potere salvifico l’uomo riesce persino a dimenticare la sua essenza mortale, a giungere in uno stato di beato oblio “lavorando dimenticava i suoi pensieri”. In questo senso d’esistenza, di temporalità, di stagionalità e precarietà, di balìa dalla natura, la bravura sartoriale del narratore si nota nel modo in cui esso è riuscito a ricucire la ciclicità delle stagioni addosso ad ogni capitolo. Scritto nel 1960, il testo risulta sì datato ma non estemporaneo. Non vi è infatti nessuna velleità comunicativa se non quella di fotografare e compendiare chiaramente una regione, un popolo e un contesto territoriale preciso. Certo, Sgorlon si lascia spazio a qualche messaggio secondario, e lo fa ponendo Eliseo come personaggio fuori dal tempo, simbolo di un epoca passata (che oggi, ahimè, sembra aver già fatto non uno ma ben due balzi in avanti) dell’uomo teletrasportato dal passato in un presente non più suo, e dunque inadatto: “Il carradore”, ripeté l’impresario “ci mancherebbe solo che adesso lasciassimo i camion per tornare a i carri e ai cavalli”. In questo incedere temporale l’autore sottolinea l’avanzare della tecnologia, dell’inarrestabile progresso e dell’inevitabile scorrere del tempo che, come vento nel vigneto, passa e se ne va.