Étienne Kern – Il sarto volante


Questa foto è stata scattata la mattina stessa, il 14 Febbraio 1912. Si distingue chiaramente, alla tua destra, uno dei pilastri della Torre Eiffel. Ci siamo. Manca pochissimo. Pugni chiusi, petto in fuori, sguardo audace, tutto nel tuo aspetto emana fierezza. I piedi ben piantati per terra. I baffi, voluminosi come sempre, sono un po’ incurvati all’insù. Ci credi. Credi in quell’affare che porti sulla schiena e che tra dieci, venti, trenta minuti non si aprirà. In realtà ci credete tutti. Non al tuo paracadute, ma alla gloria, alla nazione, al progresso, all’idea stessa di futuro. I vostri, di aereim non hanno il sapore della paura, delle bombe sganciate in volo, degli ostaggi, del World Trade Center, delle sparizioni in fondo all’oceano, dell’importanza del carbonio, dell’imminenza del disastro climatico. Il vostro mondo sembrava più semplice, più chiaro del nostro, ingenuamente ottimista. Per le strade, nelle scuole, nei bar parlate del prezzo dei cereali, dell’impero cinese, della conquista del polo Sud. Non vi aspettate la guerra che sta per scoppiare e che sconvolgerà le vostre vite. Ignorate il potenziale distruttivo del progresso. Non sei solo su quel parapetto, a cinquantasette metri di altezza. Ci siete tutti, con i vostri baffi, i berretti, gli ombrelli e i cappellini, siete tutti lì, affacciati sullo stesso abisso.

DUE PAROLE

Il romanzo si svolge fra due binari narrativi. La dimensione personale dell’autore, che si rivolge in prima persona al vero protagonista del romanzo, Franz Reichelt, per saturare la ferita ancora aperta – nella sua struggente analogia – del suicidio di una sua cara amica. E il poetico racconto della vicenda centrale, del signor Reichelt per l’appunto, l’ostinato “sarto volante” che cercò di dimostrare a se stesso, prima ancora che al mondo intero, la stoffa dei suoi sogni. La cronaca è presto fatta: il 4 Febbraio 1912, un sarto parigino di origini boeme, privo di qualsiasi fondamento o studio scientifico/ingegneristico sale sul pianerottolo della Tour Eiffel posizionato a 54 metri di altezza e si getta nel vuoto per provare l’efficacia della sua invenzione e vincere di conseguenza il prestigioso premio Lalance. Come ben saputo, e poco celato nel testo stesso, egli muore sul colpo. L’autore armonizza quindi queste due trame narrative per regalarci in un delicatissimo racconto che, nella sua spiazzante banalità, è capace di suscitare profonde emozioni. In pochissime pagine Kern riesce a condensare caratteristiche e temi ingombrantissimi. Partendo da un aneddoto degno di episodio della tragedia greca (si pensi alla maledizione della donna che si vede per ben due volte portar via un compagno di vita dalla spasmodica volontà dei mortali di sfidare il cielo, ma anche a ben altri e notissimi parallelismi a cui si può facilmente ammiccare, come l’arrogante ostinazione di un Ulisse o un Icaro di turno), l’autore pone in continua contrapposizione la decadente modernità con lo spirito ottimistico e trasognato di inizio novecento. Si delinea quindi la sagoma del progresso (che di lì a poco diventerà un’inarrestabile pallina lungo un crine destinata a detonare nella valle della fisica nucleare). Quell’inesorabile avanzamento che travolge la vita, che la sorpassa anzi ci passa sopra crudelmente senza degnarsi dei viventi, poiché essi sono solo mezzo, e non fine. L’uomo fu il mezzo con cui gli aeroplani conquistarono i cieli. Ed è facile perdersi nell’ammirazione/rimpianto di un mondo che era “ingenuamente ottimista” come citato dall’estratto. Contemplando la lettura in chiave collettiva, salendo davvero su quella piattaforma come società e non come individuo, è chiarissimo osservare l’angoscia umana, la costante consapevolezza di dover andare incontro alla propria fine. Detto ciò, il potere del libro è quello di trasmettere comunque ottimismo. E il trucco sembra insegnarcelo il maltrattatato e vituperato Reichelt. Si tratta del “come” e non del “quando”. Si tratta di saper farci muovere ancora dall’amore, piuttosto che dalla tecnica. Saperci mortali insomma, dovrebbe darci la tranquillità di chi, correndo incontro al baratro, ci si getta senza paura. Ma il motivo della riuscita del romanzo è che l’autore non si limita a velare retorici ammonimenti, perché il contesto è quanto di più romantico e scellerato possa esserci al mondo. Il movente, come spesso accade, è l’amore per la vita: prima per una donna (come dicevo, già vedova della stessa follia) e poi per una piccola fanciulla innocente. Qui, nell’umano, è possibile trovare i caleidoscopici aspetti della nostra natura. L’irrazionalità di chi, accecato dall’amore, è disposto a giocare con la propria stessa esistenza. L’ottusità e la cecità di chi si convince delle proprie posizioni, del “non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”, e quanti esempi odierni potremmo fare a riguardo? (la guerra, il cambiamento climatico, le posizioni su vaccini e medicina, per citarne solo alcuni). Il romanticismo di chi, per puro sentimento, è ancora disposto a morire per delle stupide idee.