Guardava il panorama con occhi socchiusi come se il mondo esterno fosse alterato o sospetto a causa di ciò che aveva visto altrove. Come se non potesse mai più vederlo come prima. O peggio, come se lo vedesse finalmente nel modo giusto. Com’era sempre stato e sempre sarebbe stato. Il ragazzo, che cavalcava poco più avanti, stava in sella come ci fosse nato, e infatti era così, ma dava l’impressione che, se fosse nato in uno strano paese privo di cavalli, avrebbe saputo scovarli ugualmente. Perché il mondo fosse a posto o perché lui fosse a posto nel mondo, si sarebbe accorto che mancava qualcosa e sarebbe andato in giro continuamente e dovunque finché non si fosse imbattuto in un cavallo, e allora avrebbe capito subito che il cavallo era e sarebbe sempre stato quel che cercava.
DUE PAROLE
All the pretty horses, un manifesto alla bellezza della natura e alla libertà delle passioni. Tutti i bei cavalli, bestie che più di ogni altro animale rappresentano la coesistenza della duplice anima di selvaggia libertà e indomabile soggiogazione. Un romanzo che, per lunghi tratti, porta l’uomo al centro della natura (non parliamo del Walden, per carità, ma siamo a livelli altissimi) e di quelle leggi di dominazione che regolano tanto le bestie quanto gli esseri umani. L’amore, così come l’esperienza della prigione, così come l’arte di addomesticare i cavalli, o un inutile crudele ed efferato omicidio sono tutti rami della stessa pianta. La grande e inesplicabile legge della terra che porta i suoi esseri a dominare o essere soggiogati gli uni altri altri. In questo il romanzo è fenomenale, esattamente in questo senso di cocciutaggine -perfettamente espressa dal sedicenne cowboy protagonista- verso l’inevitabile gioco della vita. John Grady percorre, andata e ritorno, quel moto a picco e quel ritorno in superficie proprio di un viaggio all’inferno, nell’oscurità del cuore umano. Siamo di fronte all’eterna lotta fra la verità e la giustizia: la proprietà del baio, l’arresto, il processo, l’esecuzione a sangue freddo del giovane Blevins, la verginità della giovane Alejandra. Tutto è custodito fragilmente negli occhi e nell’onestà intellettuale di John Grady. Il mondo però è troppo complesso per fidarsi della sua sola parola e del suo solo operato, cosi il giovane – e qui i toni del western si amalgamano in maniera sublime alle circostanze – si trova cavaliere immacolato e solitario nell’eterna giustizia che lo porterà a giustificare le proprie azioni (anche quelle più deplorevoli) auto assolvendosi nel ruolo di eroe. Un tema molto caro e radicato nella società americana.