
Si credeva che essa fosse la minaccia di una terribile tirannide per la società e se ne deduceva che le corporazioni le preparassero un giogo da schiavo. Se ci guardiamo addietro, possiamo comprendere la disperazione degli operai, perché non v’è nulla che ispiri all’umanità tanto terrore quanto la prospettiva di un’epoca di tirannide. Intanto l’assorbimento degli affari per mezzo del monopolio ognor crescente, aumentava sempre più e non si fermava sentendo a gridare la moltitudine. Negli Stati Uniti, al principio dell’ultimo quarto del secolo XIX, non era più possibile imprendere un’industria qualsiasi se non si possedeva un immenso capitale. Negli ultimi dieci anni del secolo quei piccoli commerci che ancora stavano in piedi non erano più che rimasugli di un tempo andato o parassiti delle grandi associazioni od anche vegetavano su domini che eran considerati troppo infimi dai grandi capitalisti. Ciò che ancora rimaneva di quei piccoli commerci, viveva come i sorci nel loro buco, desiderando rimanere inosservato per poter godere la vita. Le strade ferrate si erano consolidate, un sindacato controllava tutte le linee di un paese. Nelle fabbriche un sindacato governava tutte le mercanzie d’importanza. Questi sindacati fissavano i prezzi e soffocavano ogni concorrenza, ammeno che sorgessero combinazioni di forza uguale. Allora nacque una lotta che terminò di nuovo con una grande associazione. Il grande bazar della città affamava i suoi concorrenti della campagna, mentre assorbiva tutti i suoi minori rivali della città stessa; si finì col concentrare tutto il commercio in un sol centro ove centinaia di proprietari fungevano da commessi. Siccome il piccolo capitalista non poteva crearsi un commercio da sé, entrò al servizio di una combinazione nella quale pose i suoi capitali e si rese così doppiamente dipendente. Il fatto dell’essere la resistenza disperata del popolo, contro questa centralizzazione degli affari in poche mani, rimasta impotente, è una prova che ragioni economiche ben valide dovevano parlare in favore di essa. I piccoli capitalisti con tutti i loro commerci avevano ceduto alla riunione dei capitali perché si sentivano incapaci di sostenersi da sé in un era di vapore e di telegrafo così piena di colossali imprese. Il voler tornare al vecchio ordine di cose, sarebbe stato come il voler tornare al tempo in cui si viaggiava con la posta. Per quanto fosse crudele ed insopportabile la signorìa delle grandi associazioni di capitale, le vittime stesse dovevano riconoscere che mai prima d’allora l’industria nazionale aveva avuto tanto slancio, né s’era mai verificata tanta economia nell’esercizio e nell’organizzazione, e confessare che, dopo l’introduzione del nuovo sistema, la ricchezza era aumentata in modo tale che mai prima lo si sarebbe sognato. Certo che, così, il ricco divenne più ricco ancora e si fece più profondo l’abisso che lo separava dal povero; ma rimaneva però il fatto che l’associazione era il miglior mezzo per aumentare il capitale. Il ritorno all’antico sistema con le divisioni dei capitali avrebbe invero prodotto una maggiore uguaglianza di rapporti aumentando il valore e la libertà individuale; ma ciò avrebbe recato con sé un impoverimento generale e la cessazione di ogni progresso. La tendenza ad un’amministrazione di affari con un collegamento di capitali sempre crescente, ad un monopolio combattuto gagliardamente, ma senza successo, venne nel suo vero senso riconosciuto come un processo il quale aveva bisogno di completare il suo logico sviluppo per aprire all’umanità un avvenire dorato. Nel principio di questo secolo il perfezionamento fu completo, consolidandosi tutto il capitale della nazione. L’industria ed il commercio cessarono d’essere in mano d’un numero di corporazioni e sindacati, di persone private senza responsabilità, a proprio piacimento e vantaggio: ma vennero affidati alla direzione d’un solo sindacato che rappresentava la nazione ed a maggiore interesse e vantaggio di essa. La nazione, quella grande corporazione d’affari, nella quale germogliano tutte le altre corporazioni, diventò l’unico capitalista, l’unico padrone, l’unico monopolio, e i guadagni vennero ripartiti fra i cittadini. In una parola, il popolo degli Stati Uniti decise di prendere in propria mano la guida degli affari, appunto come cento e più anni fa prese in mano la direzione del governo e organizzò i rapporti industriali in base ai politici. Finalmente si era compreso (per sventura un po’ tardi) che nessun affare è tanto essenzialmente comune, quanto l’industria ed il commercio, dai quali dipende il mantenimento del popolo, ed è una grande, se non anche la più grande delle assurdità quella di affidarli a persone private che ne traggono il loro privato vantaggio: come pure di cedere il sommo potere ai re ed ai principi, allo scopo del loro personale magnificamente». «In ogni caso, una trasformazione così favolosa ha però cagionato un terribile sconvolgimento e grande spargimento di sangue?» domandai. «Al contrario», rispose il dottor Leete, «non accadde la minima rivolta. Si era veduto il cambiamento da molto tempo, il popolo lo proteggeva e l’opinione pubblica era matura. Nessuna forza e nessun motivo potevano opporvisi; d’altra parte, non si provava nessuna amarezza per le grandi corporazioni, poiché erano considerate come anelli di congiunzione e di transizione per lo sviluppo del vero sistema
DUE PAROLE
Il protagonista si addormenta e in sogno, o nella realtà in cui è precipitato, viene accompagnato da una saggia figura paterna e da una giovane donna nella scoperta della verità. Non si tratta della Divina Commedia, ma del sogno utopistico inscenato da Edward Bellamy nel 1888 per descrivere la sua idea di paradiso terrestre, ovvero la realizzazione di una società egualitaria di matrice socialista dove sono state abolite le distinzioni sociali, la proprietà privata, l’invidia, l’ignoranza e l’iniquità umana. Affetto da insonnia, il giovane protagonista Julian West si addormenta in una notte di Boston del 1887 con la tecnica dell’ipnosi per risvegliarsi più di cento anni dopo, nel 2000, e scoprire le profonde differenze socio economiche che sono maturate durante tutti quegli anni di ignoto. La sua guida è l’anfitrione e padrone di casa che ha trovato il suo giaciglio e che lo ha aiutato a tornare vigile, il dottor Leete. Egli guida il protagonista in lunghe passeggiate che, capitolo per capitolano, snocciolano il funzionamento (ovviamente elogiandolo) del sistema ottenuto. La tecnica è necessaria, sebbene quasi pedante, visto che la descrizione di un funzionamento socialista va sezionato e descritto con pedissequo rigore tecnico scientifico. Con pazienza, il dottor Leete spiega e dimostra al giovane West i perché ed i per come uno stato “nazionalizzato” (non si fraintenda però con il concetto di nazionalizzazione che abbiano noi) possa appiattire virtuosamente le congenite necessità dei singoli individui. La collettività è insomma sopra tutto, più importante di tutto. Risulta quasi fastidioso, forse direi anche utopistico nel senso più estremo e lontano del termine, leggere oggi quest’opera e quelle speranze. E non lo dico solo in termini dicotomici con il famigerato capitalismo, ma per quella conseguenza che quest’ultimo ha portato e che così limpidamente mi è capitato di leggere e sintetizzare splendidamente dalla lettura di Baumann: la divinizzazione della singolarità, dell’incertezza causata dalla libera scelta esercitata dal meccanismo economico del consumo. Sebbene in alcuni passaggi l’autore risulti quasi ingenuo, o cieco nelle sue credenze (cito “In una società, dove non ci sono poveri, che possano essere corrotti, né ricchi disposti a corrompere, la corruzione non è più possibile, e, le condizioni delle promozioni, sono scevre di intrighi e di trame, per arrivare ad occupare un posto”) egli riesce comunque a mantenere coerenza. Si prende un capitolo che oggi può essere contestato, quello sull’eguaglianza femminile. Ne riporto un passaggio “Siccome le donne sono inferiori in forza ed incapaci per certi lavori industriali, così il genere di occupazione e le condizioni di esse, sono in rapporto con le circostanze. I lavori più difficili sono sempre assegnati agli uomini; i più facili alle donne. In nessun caso vien permesso ad una donna di accettare un posto che, sia per il genere, sia per la difficoltà del lavoro, non sia adattato al suo sesso; inoltre il tempo di lavoro per le donne è molto più breve che per gli uomini, anzi vengono loro accordate vacanze specialmente per riposo ricreativo, quando questo è necessario. Gli uomini d’oggi si sono persuasi ch’essi devono, alla bellezza ed alla grazia delle donne, il maggior godimento della vita e l’impulso principale al lavoro; ch’essi non devono permettere loro di lavorare, se non pel solo motivo, che si ammette che una certa attività regolare, proporzionata alle loro forze, al tempo della loro maggiore forza fisica e morale, sia benefica, e noi crediamo che il motivo, pel quale le nostre donne godono miglior salute di quella dei vostri tempi consiste appunto su ciò che ora esse si occupano igienicamente”.
Quali strali avrebbe riscosso oggi una frase simile? Nella costruzione del nostro ego centrista, cosmopolita e consumista, siamo arrivati a vendere che l’eguaglianza sociale è pari alla eguaglianza degli individui. Il che è una grandissima falsità, un male che – credo fermamente – screditi completamente i più alti principi che l’ideologia voglia proporre. Ammettere pertanto una diversità intrinseca nel genere femminile come si evince dalle righe soprastati non è, a mio avviso, sintomo di corta visione, bensì di una posizione più coerente e bilanciata in termini di onestà intellettuale. Sono questi, sempre secondo il mio giudizio, i punti più forti del testo e non quelli dove ci sono richiami a intuizioni che poi ha portato la modernità (il sistema di credito, l’appiattimento delle mansioni lavorative, la tecnologia come drago da cavalcare, il sistema pensionistico, etc). Chiudo pertanto con l’ennesimo stralcio scanzonato, con un messaggio pur ingenuo quanto puro: “Se dovessi con una parola darvi la chiave dei segreti della nostra civilizzazione, paragonata a quella dei vostri tempi, vi direi che la solidarietà del genere umano e della umana fratellanza, che allora erano soltanto belle frasi, sono, secondo il nostro sentire, legami veri e forti quanto quelli del sangue.”