Emmanuel Carrère – I baffi

Primo, era pazzo. E questo, in realtà, anche se le apparenze deponevano a suo sfavore, sapeva che non era vero. Segno di follia, certo, si può sempre dire così, ma no, no, i suoi ricordi erano davvero troppo precisi. Dunque suo padre era vivo, i suoi amici esistevano, si era rasato i baffi. Ammesso questo, seconda ipotesi: Agnès era pazza. Impossibile, gli altri non sarebbero stati al gioco. All’inizio forse, credendo a uno scherzo, ma dopo no, non Jérôme, quando con ogni evidenza la faccenda era andata al di là di una farsa inoffensiva. Terzo: quello di Agnès era davvero uno scherzo, che lei portava alle estreme conseguenze dopo essersi assicurata la loro complicità. Stessa obiezione: vedendo che si metteva male avrebbero lasciato perdere. Tanto più che, dopo la storia di Sylvie, Jérôme su queste cose non scherzava – e comunque, oberati di lavoro com’erano, aveva tutto l’interesse a che il socio andasse in agenzia piuttosto che starsene a casa a torturarsi nella convinzione di essere pazzo. Rimaneva una quarta possibilità, che fino a quel momento non aveva contemplato. E cioè che non si trattasse di uno scherzo, fosse anche di pessimo gusto, ma di qualcosa di molto più grave, che bisognava pur guardare in faccia, quantomeno a titolo d’ipotesi: un piano ordito contro di lui, volto a farlo impazzire, a spingerlo al suicidio o a farlo rinchiudere in una cella imbottita.

DUE PAROLE

Si comincia da Pirandello, ed è difficile scrollarselo di dosso. Siamo di fronte allo stesso dramma esistenziale di un uomo che realizza di colpo di non essere quello che ha sempre pensato di essere. In questo caso la cagione dell’epifania non è il naso bensì, come si evince banalmente dal titolo, il paio di baffi che ha in faccia. Sembra quasi un plagio, il moto pirandelliano. La molteplicità della ragione diventa presto paranoia, e sfocia in pura follia. Come Gengè, il protagonista trova la libertà nella pura pazzia, nell’oblio della mente. Va da sé, l’opera non può considerarsi originale, piuttosto – e non mi vergogno ad affermarlo – un tributo alla genialità eterna dello scrittore siciliano. La disperazione della solitudine e del viaggio dentro se stessi casca anche in un’altra assonanza, ovvero sulla bellissima illusione del poter navigare in eterno lungo un fiume come la coppia di anziani amanti ne “L’amore ai tempi del colera”. Qui è il singolo a pensare di poter passare l’eternità, nella sua isolata follia, lungo un traghetto che fa spola fra una sponda e l’altra della città di Hong Kong. Mentre Moscarda conquista la consapevolezza di non essere una sola e monolitica realtà, ovvero un elogio alla caleidoscopica natura umana, in questo romanzo il protagonista non trova alcuna libertà intellettuale. Si esegue una vera e propria condanna dell’io. Egli giunge infatti a mutilarsi il viso e infine a tagliarsi la gola, scegliendo la morte come unica via di salvezza all’incomprensione del mondo e dell’altrui verità.