Erich Maria Remarque – Niente di nuovo sul fronte occidentale


Tutto è questione di abitudine, anche la trincea. Questa forza dell’abitudine è anche quella che ci fa, in apparenza, dimenticare così presto. L’altro ieri eravamo ancora sotto il fuoco, oggi facciamo delle buffonate e gironzoliamo nei dintorni in cerca d’avventure, domani saremo nuovamente in trincea. In realtà non dimentichiamo nulla. Finché siamo in guerra, le giornate del fronte, a mano a mano che passano, precipitano, ad una ad una come pietre, nel fondo della nostra coscienza, troppo grevi perché pel momento ci possa riflettere sopra. Se lo facessimo, esse ci ucciderebbero; infatti ho sempre osservato che l’orrore si può sopportare finché si cerca semplicemente di scansarlo: ma esso uccide, quando ci si ripensa. A quella stessa guisa per cui andando avanti diventiamo belve, poiché solo in tal modo sentiamo di poterci salvare, così tornati a riposo ci trasformiamo in burloni superficiali, in dormiglioni impenitenti. Non possiamo fare altrimenti, si direbbe che vi siamo costretti. Vogliano vivere ad ogni costo, e perciò non possiamo ingombrarci di sentimenti, che, decorativi in tempo di pace, sarebbero qui assolutamente fuor di luogo. Kemmerich è morto, Haje Westhus muore, il corpo di Hans Kramer, colpito in pieno da una granata, darà un bel da fare il giorno del giudizio, quando si tratterà di riappiccicarlo insieme, pezzettino per pezzettino; Martens non ha più gambe, Meyer è morto, Marx è morto, Beyer è morto, Hämmerling è morto, centoventi dei nostri sono sparsi chi sa dove, negli ospedali, fra i feriti; è un affaraccio, ma, insomma, che cosa ci possiamo fare? noi intanto viviamo. Se fosse in nostro potere di salvarli, allora si vedrebbe di che siamo capaci; non ci cureremmo della nostra pelle; si marcerebbe: perché quando vogliamo, abbiamo un fegataccio, e poco conosciamo la paura (il terrore sì, ma quello è altra cosa, quello è fisico). Ma i nostri compagni sono morti, non possiamo aiutarli; sono in pace, e noi, chissà che cosa ci attende ancora: perciò vogliamo distenderci e dormire e mangiare fino a riempirci la pancia, e bere e fumare, se no le ore sono troppo deserte. La vita è breve. L’orrore del fronte sparisce quando gli voltiamo le spalle: ne parliamo con freddure volgari e rabbiose: anche quando uno muore, usiamo un’espressione triviale; e così di tutto. È un modo come un altro di non impazzire. Finché prendiamo la vita a questo modo, possiamo resistere. Ma dimenticare no. Quello che i giornali di guerra stampano, intorno al morale altissimo, al sano umorismo delle truppe che organizzano balletti non appena tornano dal fuoco, sono tutte stupidaggini. Non si fa questo per umorismo, ma perché altrimenti si sarebbe perduti. Del resto anche questo giuoco non potrà durare a lungo, il buon umore si fa di mese in mese più amaro. E poi so bene: tutto ciò che si affonda in noi, come un mucchio di pietrame, finché dura la guerra, si ridesterà un giorno a guerra finita, e allora comincerà la resa dei conti, per la vita e per la morte.

DUE PAROLE

Il soldato Paul Baumer racconta in prima persona l’esperienza tragica di un gruppo di adolescenti che vede la propria vita passare dalla pubertà vissuta come reclute di caserma alla maturità, e di conseguenza al disincanto e poi alla morte, di giovani uomini al fronte, sotterrati in una guerra di trincea. È un libro quasi formativo, che vede uno sviluppo (involutivo) della spensieratezza e della ferocia umana. Il testo narra, avvalendosi di una prosa molto asciutta, delle esperienze cruente del protagonista e dei suoi compagni di brigata. Tutti, protagonista compreso, finiranno giovanissimi fra le braccia della morte. Il processo di maturazione dei ragazzi viene sviluppato per un veloce stratificarsi di abomini compiuti davanti ai loro occhi. E come se non bastasse, da semplici vittime inermi di alti destini, i ragazzi sono costretti lentamente a trasformarsi anche in apatici carnefici. Agghiacciante: “Avevamo diciott’anni, e cominciavamo ad amare il mondo, l’esistenza: ci hanno costretti a spararle contro.” Memorabile il capitolo in cui Paul è portato a conoscere l’uomo che ha dovuto uccidere con le proprie mani, trasformando la guerra da una questione pubblica a una privata, fintanto intima. Mentre il terreno della disillusione si sgretola, gli uomini comprendono la loro stessa atrocità e il loro immutabile destino di assassini destinati a una fine crudele.

Come ci ha insegnato Tolstoj, sono gli uomini comuni a fare la guerra, a rappresentarne il proprio spirito. Ed è questo il lascito e il fortissimo impatto del romanzo, ovvero quello di far parlare per diretta esperienza i nostri figli, i giovani, le persone che il futuro pensavano insomma di poterselo trovare ancora davanti e che invece si è disintegrato in un piccolo palcoscenico di periferia, senza lasciare traccia né onore. L’insensatezza della guerra, già trattata in altri testi di riferimento assai blasonati, viene qui espressa con la crudeltà necessaria. Anche il contesto storico è assai significativo, poiché la prima guerra mondiale è stata a tutti gli effetti una guerra ottocentesca per certi versi, nonostante siamo tutti portati a considerarla (a ragione) una guerra “moderna”, del nuovo secolo. Come ha raccontato anche Cèline, il contesto narrativo è popolare, l’incomprensione della guerra è un enigma posto agli innocenti. Il romanzo è dei più poveri, degli ultimi, quasi un romanzo cristiano sotto un certo punto di vista. È dal basso della trincea che si percepisce l’ingiustizia del dover combattere e morire per una causa mai propria. Per qualche strano, impalpabile, alto concetto deciso a un tavolo di persone più edotte, più ricche, più crudeli e probabilmente più distanti dalla realtà.