Milan Kundera – La lentezza


Che cosa rispondere? Questo forse: che l’uomo curvo sulla sua motocicletta è tutto concentrato sull’attimo presente del suo volo; scisso dal passato come dal futuro; si è sottratto alla continuità del tempo; è fuori del tempo, in altre parole, è in uno stato d’estasi; in tale stato non sa niente della sua età, niente dei suoi guai, e di conseguenza non ha paura, poiché l’origine della paura è nel futuro, e chi si è affrancato al futuro non ha più nulla da temere. La velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo. A differenza del motociclista, l’uomo che corre a piedi è sempre presente al proprio corpo, costretto com’è a pensare continuamente alle vesciche, all’affanno; quando corre avverte il proprio peso e la propria età, ed è più che mai consapevole di se stesso e del tempo della sua vita. Ma quando l’uomo delega il potere di produrre velocità a una macchina, allora tutto cambia: il suo corpo è fuori gioco, e la velocità a cui si abbandona è incorporea, immateriale – velocità pura, velocità in sé e per sé, velocità-estasi. Strano connubio: la fredda impersonalità della tecnica e il fuoco dell’estasi. Mi torna in mente l’americana che una trentina di anni fa, con piglio insieme severo ed entusiastico, da vera militante dell’erotismo, mi diede una lezione (gelida teorica) sulla liberazione sessuale; la parola che ricorreva più frequentemente nel suo discorso era “orgasmo”; tenni il conto: la pronunciò quarantatré volte. Il culto dell’orgasmo: l’utilitarismo puritano applicato alla vita sessuale; l’efficienza contrapposta all’ozio; la riduzione del coito a un ostacolo che va superato il più velocemente possibile per giungere a un’esplosione estatica, unico vero fine dell’amore e dell’universo. Perché è scomparso il piacere della lentezza? Dove mai sono finiti i perdigiorno di un tempo? Dove sono quegli eroi sfaccendati delle canzoni popolari, quei vagabondi che vanno a zonzo da un mulino all’altro e dormono sotto le stelle? Sono scomparsi insieme ai sentieri fra i campi, insieme ai prati e alle radure, insieme alla natura? Un proverbio ceco definisce il loro placido ozio con una metafora: essi contemplano le finestre del buon Dio. Chi contempla le finestre del buon Dio non si annoia: è felice. Nel nostro mondo, l’ozio è diventato inattività, che è tutt’altra cosa: chi è inattivo è frustrato, si annoia, è costantemente alla ricerca del movimento che gli manca.

DUE PAROLE

Prima opera di Kundera in francese. In un mistico castello si intrecciano storie di epoche diverse, probabilmente partorite dalla viva immaginazione dell’autore in visita con la moglie al castello stesso. Nella trama partecipano quindi tre piani logici e temporali: quello del visivo e del presente, quello dell’immaginario (talmente verace da riuscire a turbare la moglie nei sogni) e quello letterario, che si appoggia su un romanzo settecentesco chiamato “senza domani” dello scrittore Vivant Denon. 

Kundera mischia con divertentissima arguzia questi scenari. Il risultato è un pasticcio culturale, che si esprime teatralmente in un convegno di entomologi a cui partecipano le caricature della comica tragedia. L’illustre scienziato Čechořípský, accademicamente vessato dal regime comunista e costretto per più di vent’anni al duro lavoro del muratore, la regista Immacolata e il suo amante/aiutante, intenti a girare un film documentario sul politico Berck. L’antagonista politico di Berck, Pontevin e un suo subdolo amico Vincent, incapace di copiarlo. Dei tanti temi che percorrono velocemente le pagine, dalla modernità alla politica, fino all’epicureismo, rimangono chiari e interpretabili quelli che si aggrappano alla gloria (e quindi alla vacuità umana) e quelli appunto della lentezza, ovvero della giusta velocità necessaria per potersi godere la vita. Sembra insomma esserci un flebile filo conduttore che ricorda a tutti come il perseguimento della realizzazione (personale e collettiva) passi per una compassata consapevolezza piuttosto che per un’orgiastica frenesia propria dei nostri giorni.