Evgenij Zamjatin – Noi

“Noi procediamo — un unico corpo con milioni di teste — e dentro ognuno alberga la gioia mite di cui si nutrono, probabilmente, le molecole, gli atomi, i fagociti. Nel mondo antico ciò era comprensibile ai cristiani, unici nostri predecessori (ancorché molto imperfetti): conoscevano la maestà della chiesa — ‘unico gregge’— e sapevano che l’umiltà è una virtù, mentre la superbia è un vizio, e che ‘NOI’ è di Dio, mentre ‘IO’ è del demonio. Ecco: io adesso procedo di concerto con tutti, eppure avulso da tutti. Sono ancora tutto scosso per le ansie provate, come un ponte rintronato dal passaggio di un vecchio treno di ferro. Ho sensazione di me. Ma ha sensazione di sé, è cosciente del proprio essere singolo individuo, soltanto un occhio irritato da un bruscolo, un dito in suppurazione, un dente cariato: se sani, occhio, dito e dente è come se non esistessero. Non è forse chiaro che aver coscienza di sé vuol dire solo malattia? Io, forse, ormai non sono più un fagocita, che operoso e placido divora i microbi (quelli dalla tempia cerulea, quelli lentigginosi): io, forse, sono un microbo e, forse, i microbi sono già mille fra noi e ancora si fingono, come me, fagociti. Che succederebbe se ciò che è accaduto oggi, — cosa di per sé poco importante — se tutto ciò fosse solo l’inizio, soltanto il primo di una intera serie di meteoriti fragorosi e fiammeggianti riversati dall’infinito sul nostro paradiso di vetro?”

 

DUE PAROLE

 

Comincio con una banalità, dallo stupore di chi ha letto 1984 senza conoscere “Noi”. Il romanzo è infatti uno dei capostipiti del filone distopico e tratta ampiamente parecchi temi poi ripresi da Orwell (il quale sappiamo conoscesse sicuramente il romanzo di Zamjatin), anticipandoli di quasi 30 anni. Devo essere sincero, il testo e l’intreccio Orwelliano sono l’evoluzione –direi perfetta – di questo testo che sì, anticipa i tempi, ma che non possiede la stessa profondità di analisi dello scrittore britannico. Poco importa, comunque. La portata di questo romanzo è comunque devastante. Non solo perché, stilisticamente, “Noi” risulti assai più visionario e pittoresco (frequente l’uso di figure visive) grazie ad una prosa astratta e al tempo stesso meccanica (il sublime connubio della formazione di Zamjatin, un ingegnere navale innamorato della scrittura), ma anche per ciò che effettivamente ha anticipato, per non dire inventato, ovvero un claustrofobico incubo futurista dove il singolo individuo prende coscienza della sua moltitudine e dove l’anormalità è vista come una vera e propria malattia. (Tema importante, perché la peculiarità, è ciò che distingue l’essere umano dalla massa. Porre sullo stesso piano la stranezza e la malattia significa dunque somatizzare il pensiero delle grandi dittature, anticipandolo o prevedendolo, l’irreale e triste attuazione dell’eliminazione del “diverso”, che per infausta logica si tramuta in superfluo e quindi eliminabile).
Da un punto di vista narrativo il romanzo è impostato come un diario (bellissima, fra l’altro, la nota del traduttore di questa versione che spiega le reali complicazioni dovute alla ri-stesura di una prosa e di una lingua stilisticamente ricchissima). D-503, un ingegnere dedito alla costruzione de “l’integrale”, verga il suo diario narrando la trasformazione in essere. La “malattia” che lo colpisce, che noi chiamiamo amore, lo porta a formulare nuovi desideri, ad uscire dal tracciato, ma soprattutto a sviluppare la cosa più pericolosa per una figura del suo calibro: la fantasia. Più volte Zamjatin ci fa capire di essere all’interno di un meta-romanzo, in una narrazione dove il protagonista stesso non capisce se essere attore od osservatore. Un banale quanto raffinato trucco per continuare a solleticare la percezione del lettore sulla possibilità che il tutto non sia altro che un sogno, magari di una volontà collettiva. La coercizione della (percezione di) realtà è un’altra nota caratteristica delle dittature.
Strabiliante come Zamjatin arrivi ad incorniciare scenari oggi attualissimi. E se Orwell li sviluppò successivamente con il senno dell’osservatore, risulta ancora più encomiabile la sua proiezione, la chiara comprensione del significato di macchina dittatoriale, nonché l’incredibile precorrenza dei tempi; non dimentichiamoci infatti che lo zenith delle varie dittature era, sì, probabilmente percepibile, ma ancora bel lontano dal giungere.
Porta quasi ingiustizia, insomma, continuare ad affiancare “Noi” a 1984, ma va sottolineato (specialmente a coloro i quali leggeranno –inverosimilmente- queste parole fra anni) come quest’ultimo occupi un posto di ben altro grado rispetto al romanzo russo. Nei giorni in cui scrivo la cultura popolare sembra essere cospicuamente invasa dall’ombra delle distopie narrative. Sotto un certo punto di vista la nostra generazione ha introiettato dentro se stessa la desolazione lasciata dai governi i quali, sempre più costantemente, appaiono leviatani monolitici. Dei veri e propri mostri, o spauracchi. Personalmente, reputo decisivo il contributo di questo filone narrativo. Ma se anche così non fosse, la precisione con cui i temi più delicati e scomodi dell’attualità politica mondiale (globalizzazione, sovrappopolazione, mancanza di identità, appiattimento culturale, meccanicità lavorativa, etc.) vengono inanellati con meticolosa e preoccupante precisione. Quasi come se il romanzo avesse influenzato la storia e non viceversa. Senza lodare la prosa onirica, il pathos narrativo e la grandissima capacità narrativa di Zamjatin, questo basterebbe già a consegnare “Noi”, senza riserva alcuna, all’olimpo della letteratura.

INFO UTILI

260 pagine, circa 4 ore di lettura.
Edizioni Voland, Traduzione di Alessandro Niero – ISBN 9788862431422
In copertina un quadro di Fortunato Depero.