George Saunders – Dieci dicembre


Abnesti disse: «Flebo, Jeff?» «Affermativo», dissi. «Flebo, Heather?», disse. «Affermativo», disse Heather. Ci guardammo, della serie: E adesso che succede? Successe che Heather mi sembrò subito una grandissima gnocca. E si vedeva che la cosa era reciproca.
Accadde così di colpo che ci venne quasi da ridere. Come avevamo fatto a non accorgerci di quanto ci piacevamo? Per fortuna nel Laboratorio c’era un divano. Forse la flebo conteneva, oltre alla sostanza che stavano testando, anche un po’ di ED556, che riduce il tasso di pudore praticamente a zero. Perché partimmo subito in tromba, lì sul divano. Fu subito passione sfrenata. Ma non banalmente nel senso di fregola. Sfrenata sì, ma anche perfetta. Come se avessi sognato per tutta la vita una certa ragazza e a un tratto eccola lì, nel tuo stesso Laboratorio. «Jeff», disse Abnesti. «Vorrei il permesso di stimolare i tuoi centri lessicali». «Vai col tango», dissi, mentre ero sotto di lei. «Flebo?», disse lui. «Affermativo», dissi. «E io?», disse Heather. «Pronti!», disse Abnesti, con una risata. «Flebo?» «Affermativo», disse lei, ansimando. Poco dopo, grazie ai benefici del Verbaluce®, non solo scopavamo alla grande ma parlavamo strabene. Tipo che invece di dire le cose sexy che avevamo detto fino a quel momento (come «uau» e «oddio» e «oh sì», eccetera) cominciammo a improvvisare sulle nostre sensazioni e i nostri pensieri, in stile aulico, con un incremento lessicale dell’ottanta per cento, mentre i nostri pensieri espressi con proprietà di linguaggio venivano registrati per essere analizzati in un secondo momento. Nel mio caso, la sensazione era, all’incirca: stupore per la crescente consapevolezza del fatto che quella donna veniva creata in tempo reale, direttamente dal mio cervello, secondo i miei appetiti più profondi. Finalmente, dopo tanti anni (era il mio pensiero), avevo trovato la perfetta combinazione corpo/viso/mente che personificava l’epitome del desiderabile. Il sapore della sua bocca, l’aureola di capelli biondastri che si spargeva attorno al suo volto angelico e al contempo malizioso (ce l’avevo sotto adesso, gambe sollevate al soffitto), perfino (non per essere volgare o insozzare l’esaltazione che stavo vivendo) le sensazioni prodotte dalla sua vagina sul mio pene in azione erano esattamente quelle che bramavo da sempre, sebbene mai, prima di quell’istante, mi fossi reso conto di averle bramate con tanto ardore. In altre parole: appena si manifestava un desiderio, contestualmente si manifestava anche la soddisfazione di quel desiderio. Era come se (a) anelassi un determinato sapore (mai gustato prima d’allora) finché (b) il desiderio di cui sopra non diventava quasi insopportabile, momento in cui (c) nella mia bocca trovavo già un boccone che aveva esattamente quello stesso sapore e soddisfaceva il mio desiderio alla perfezione. Ogni parola, ogni modifica della postura rivelava la medesima cosa: ci conoscevamo da sempre, eravamo anime gemelle, ci eravamo incontrati e amati in una miriade di vite precedenti, e ci saremmo incontrati e amati in tante vite successive, sempre con gli stessi straordinari esiti miracolosi. Poi cominciai a perdermi in una serie di sogni a occhi aperti difficili da descrivere ma assai realistici che forse sarebbe meglio definire paesaggio mentale adiegetico, cioè un vago susseguirsi di immagini mentali di luoghi in cui non ero mai stato (una valle stipata di pini fra alte montagne bianche; una specie di villetta in fondo a una strada senza uscita, col giardino invaso da alberi larghi e contorti che sembravano usciti da un libro del dottor Seuss), ciascuna delle quali scatenava desideri profondi, desideri che si fusero, e presto si ridussero, a un unico desiderio fondamentale, cioè un intenso desiderio di Heather e null’altro che Heather. Questo fenomeno del paesaggio mentale raggiunse l’apice durante il nostro terzo (!) amplesso. (A quanto pare, Abnesti aveva aggiunto un po’ di Vividur® alla mia flebo.) Dopo l’amplesso, ci professammo amore all’unisono con complessità linguistica e dovizia di metafore: oserei dire che stavamo poetando. Ci lasciarono giacere lì, con le membra intrecciate, per quasi un’ora. Era beatitudine. Perfezione. Era l’impossibile: felicità che non sfiorisce svelando i sottili germogli di un nuovo desiderio scaturito al suo interno. Ci coccolammo con un’intensità/concentrazione che rivaleggiava con l’intensità/concentrazione con cui avevamo scopato. Voglio dire che le coccole non furono da meno della scopata. Ci scambiammo effusioni e tenerezze come cagnolini o sposi che si incontrano per la prima volta dopo che uno dei due ha sfiorato la morte. Tutto sembrava umido, permeabile, dicibile. Poi l’effetto della flebo cominciò a svanire. Abnesti aveva tolto il Verbaluce®? Anche il riduttore del pudore? In sostanza, ci fu un calo generale. Ci prese la timidezza. Ma ci amavamo ancora. Passammo ai primi tentativi di verbalizzazione nella fase post-Verbaluce®: sempre faticosi. Ma capivo dal suo sguardo che ancora mi amava. E anch’io decisamente l’amavo ancora. E come poteva essere altrimenti? Avevamo appena scopato tre volte! Secondo voi perché si dice «fare l’amore»? Noi quello avevamo fatto per tre volte: l’amore. Poi Abnesti disse: «Flebo?» Ci eravamo quasi scordati della sua presenza dietro lo specchio segreto. «Dobbiamo proprio?», dissi. «Stiamo così bene adesso». «Proviamo solo a riportarvi allo stadio iniziale», disse. «Ancora non abbiamo finito per oggi». «Cazzo», dissi. «Merda», disse lei. «Flebo?», disse Abnesti. «Affermativo», dicemmo.

DUE PAROLE

Raccolta di racconti che spaziano dal postmoderno al surreale toccando la fantascienza o la proiezione collettiva e ansiogena di un mondo che si sta trasformando a velocità incontrollabile, e dunque anche incomprensibile. Incontrollabile diventa quindi la scrittura, spesso segnata da uno stile schizofrenico dove le voci di chi narra e chi viene narrato si sovrappongono caoticamente. Affresco dei nostri tempi. Come tale, decadente e fallimentare.