J. M. Coetzee – Età del ferro

Che razza di genitori saranno se gli era stato detto che il tempo dei genitori era finito? Potrà rinascere l’idea dei genitori se è stata cancellata dentro di loro? Prendono a calci e pestano un uomo perché beve. Danno fuoco alla gente e ridono mentre muore tra le fiamme. Cosa faranno con i loro bambini? Di quale amore saranno capaci? I loro cuori si trasformano in pietra davanti ai tuoi occhi, e tu cosa dici? Tu dici: Questi non sono i miei figli, questi sono i figli dei bianchi, questi sono i mostri creati dall’uomo bianco. È questo, tutto quello che sai dire? Scaricherai la responsabilità sui bianchi e volterai le spalle?– No– ha detto Florence.– Questo non è vero. Io non volto le spalle ai miei figli–. Ha piegato il lenzuolo in due e poi in quattro, in due e ancora in quattro; gli angoli, nel ricadere, combaciavano perfettamente, definitivamente.– Questi sono ragazzi in gamba, sono come il ferro, siamo orgogliosi di loro–. Sull’asse da stiro ha disteso la prima federa. Ho aspettato che continuasse a parlare. Ma non c’è stato seguito. Non era interessata a discutere con me. Ragazzi di ferro, ho pensato. Florence, lei stessa di ferro. L’età del ferro. Dopodiché segue l’età del bronzo. Quanto, quanto tempo ci vorrà ancora, prima che ritornino, secondo il loro ciclo, ere piú tranquille, l’età dell’argilla, l’età della terra? Una matrona spartana, dal cuore di ferro, che concepisce alla nazione figli guerrieri. «Siamo orgogliosi di loro». Noi. Torna a casa con lo scudo oppure sopra il tuo scudo. E io? Da che parte sta il mio cuore in tutto questo? La mia unica figlia è lontana migliaia di chilometri, al sicuro, presto io sarò cenere e fumo, e allora che me ne importa se è venuto il tempo in cui l’infanzia è disprezzata, in cui i bambini si addestrano a vicenda a non sorridere mai, a non piangere mai, a sollevare i pugni in aria come martelli? È davvero un tempo fuori dal tempo, partorito dalla terra, bastardo, mostruoso? Dopo tutto, che cosa ha dato alla luce l’età del ferro, se non l’età del granito?

DUE PAROLE

In forma epistolare, la vecchia Signora Curren, scrive alla sua lontana figlia gli accadimenti del suo presente. La malattia, l’apartheid e la società sudafricana contemporanea. Un libro non certo spensierato, che porta subito il lettore in uno stato di affanno. Malata di cancro e prossima alla morte (almeno come percezione), la signora ospita inizia ad ospitare in casa propria un barbone di nome Vercueil, ombra e Virgilio dei suoi ultimi giorni di vita in quella che è una vera e propria passeggiata verso l’inferno. Proprio come in una rivelazione d’ambito dantesco, la protagonista si immerge nella vita reale e vede in faccia la crudeltà del suo paese. Il romanzo, zeppo di simbolismi, denuncia le condizioni in cui vessa il Sud Africa e parla in prima istanza del conflitto generazionale e del razzismo che stanno instancabilmente spaccando il paese. Coetzee, se mi è concesso immagine il suo pensiero, immedesima nella signora la sua generazione. Una generazione, vecchia, stanca, malata e piena di pregiudizi. Capace di aprirsi al prossimo solo e soltanto nel momento del bisogno, all’orlo della fine. È una generazione che si stupisce della semplicità con cui ci si possa prendere cura degli altri, quivi simboleggiato dal pluri-significativo Vercueil: ombra, tumore e Caronte della vecchia insegnante. Egli, un puzzolento e malato senzatetto privo di ogni dignità e proattività, rappresenta perfettamente il paese stesso. Accolto in grembo dalla madre-generazione Curren. Le cure e le attenzioni che le rivolge la padrona di casa gli sono quasi indifferenti, di quelle indifferenze superiori, che trascendono dal giudizio del bene o del male. Uno stato anestetico, simboleggiato dall’alcolismo, in cui solo un corpo privo di coscienza può adottare. Soccombe alla sua stessa inesistente volontà. La figlia, infine, e con se gli altri giovani del racconto, sono enormemente distanti dalla signora. Incapaci di comunicare in entrambe le direzioni, soccombono anch’essi ai pregiudizi dell’incomprensione. Mentre fra Vercueil e la Signora v’è un abbozzo di dialogo, con i giovani non c’è verso di riuscirvi. La forma epistolare come scelta di comunicazione verso la figlia, è la testimonianza stessa di un tentativo insufficiente di comprensione. Un canale monodirezionale e sideralmente lontano dalla necessità di espressione e immediatezza. L’unico giovane che sfugge a questa regola è il rispettato e rispettoso Bakhi che, sa va sans dir, viene impunemente giustiziato dall’iniquità della giustizia.