Javier Marìas – Un cuore così bianco

Anche le cose più indelebili hanno una durata, come quelle che non lasciano traccia o neppure succedono, e se le possiamo prevedere, annotare o registrare o filmare, e ci circondiamo di promemoria e addirittura cerchiamo di sostituire l’accaduto con la sua mera conferma, registrazione e archiviazione, di modo che ciò che accade realmente non sia, fin dall’inizio, che il nostro annotare o registrare o filmare, nient’altro; pure in quest’infinito perfezionamento della ripetizione avremo perduto il tempo in cui davvero le cose accaddero (benché sia il tempo dell’annotazione); e mentre cerchiamo di riviverlo o riprodurlo o farlo tornare indietro e impedirgli di fuggire, un tempo diverso gli succederà, e in questo tempo, di certo, non staremo insieme né risponderemo a nessun telefono e ci mancherà il coraggio e non potremo evitare il crimine o la morte (anche senza commetterlo o esserne la causa), perché lo lasceremo trascorrere come se non ci appartenesse nel tentativo febbrile di non farci scappare e di rivivere quel che è già successo. In questo modo, ciò che vediamo e sentiamo finisce per assomigliare e addirittura diventare identico a ciò che non abbiamo visto né sentito, è solo questione di tempo, o dipende dalla nostra scomparsa. E nonostante tutto non possiamo far altro che impostare la nostra vita ad ascoltare e a vedere e a partecipare e a sapere, convinti che la nostra vita dipenda dallo stare insieme un giorno o dal rispondere a una telefonata, o dall’avere il coraggio, o dal commettere un crimine o causare una morte e sapere che è stato così. A volte ho la sensazione che niente di ciò che succede succeda davvero, poiché niente succede senza interruzione, niente persiste né persevera né si ricorda in eterno, e anche la più monotona e banale delle esistenze si annulla e nega se stessa in questa ripetizione apparente al punto che niente è niente e nessuno è nessuno che sia esistito in precedenza, e la debole ruota del mondo viene spinta da smemorati che ascoltano e vedono e sanno ciò che non si dice e non avviene e non si conosce né si può dimostrare. Ciò che avviene è identico a ciò che non avviene, ciò che scartiamo o ignoriamo identico a ciò che accettiamo o afferriamo, ciò che sperimentiamo identico a ciò che non proviamo, tuttavia la vita passa e passiamo la vita a scegliere a rifiutare a selezionare, a tracciare una linea che separi quelle cose che sono identiche e faccia della nostra storia una storia unica da ricordare e da raccontare. Impieghiamo tutta la nostra intelligenza e i nostri sensi e le nostre ansie al fine di discernere ciò che sarà uniformato, o che lo è già, e per questo siamo pieni di rimpianti e di occasioni perdute, di conferme e riaffermazioni e di occasioni sfruttate, quando l’unica certezza è che nulla si afferma e tutto si perde. O forse non c’è mai stato niente.

DUE PAROLE

È il candido atto dell’ascolto che macchia la nostra coscienza. Questa, una volta “sporcata”, non può più tornare intonsa. È il destino di ogni racconto, che forse si scontra con il paradosso per eccellenza del linguaggio: il dramma del dover dire sapendo di non poter rispettare con fede la veridicità dei fatti, qualunque essi siano. Il tema del romanzo è sviluppato proprio su questa profonda frustrazione umana e filosofica. “Ascoltare è davvero pericoloso -pensai- significa sapere, significa essere informato ed essere al corrente, le orecchie sono prive di palpebre che possano chiudersi istintivamente di fronte a ciò che viene pronunciato, non si possono proteggere da ciò che si presume stia per essere ascoltato, è sempre troppo tardi. Ormai sappiamo, è ciò che probabilmente macchia i nostri cuori cosi bianchi, o forse pallidi e timorosi, o codardi”. Come sovente accade con Marias, è una frase di Shakespeare a fare da architrave al libro. Esiste l’indicibile? O meglio ancora, è narrabile? Il protagonista del romanzo incarna il senso della moltitudine sterile di ogni lingua. Egli, traduttore, soccombe alla verità dei fatti. Uomini misteriosi che devastano le vite delle donne a lui più vicine. L’uomo e narratore osserva asetticamente la realtà che lo circonda, quasi privo di emozioni. Lo stesso uomo, lo stesso narratore, soccombe alla sconfitta primigenia del linguaggio: “E se fosse qualcosa che non si può raccontare? – Che vuol dire? Tutto si può raccontare. Basta mettere una parola dietro l’altra. – Qualcosa che non si può raccontare. Qualcosa che è passato da tempo, ogni tempo ha i suoi racconti, e se si lascia passare l’occasione, allora, a volte, è meglio tacere per sempre. Le cose decadono e diventano inopportune. – Io credo che il tempo non passi per nessuna cosa, resta tutto lì, in attesa di farlo tornare. E poi, a tutti piace raccontare la propria storia, anche a quelli che non ce l’hanno. Se i racconti sono diversi, il significato è lo stesso.”
La narrazione è articolata su piani ripetitivi, su visioni quasi oniriche di personaggi che assomigliano a se stessi, che forse, in realtà, sono loro stessi. Il protagonista si ripete e ripete la sua esistenza senza poterla capire né giustificare negli atti, anzi, nelle parole del padre. Gli amori e i tradimenti si ripetono nella storia sfuocata degli eventi cui il narratore era sia testimone che attore. I personaggi del romanzo si confondono e si sovrappongono in un maestoso e spregiudicato gioco di specchi letterario che si sposta costantemente tra l’esperienza e la narrazione del ricordo. Il risultato è, oltre che un elogio alla cronaca, la manifesta sconfitta del riscontro della verità: “non avevo nessuna possibilità di conoscere la verità, cosa che, tra l’altro, non mi è mai sembrata determinante al momento di prendere posizione per qualcosa o per qualcuno.”
Un libro difficile e magnificente, un mattone da piantare saldamente nel muro della cultura personale.