Nella versione del dottor Netanyahu, l’Inquisizione andava interpretata come Inquisizioni, al plurale, che dovevano essere suddivise tra quelle lanciate dai papi e dalla Chiesa cattolica e quelle lanciate dalle monarchie colluse con la Chiesa. La prima di queste istituzioni politicizzate era nella penisola iberica: prima in Spagna, poi in Portogallo. Il vero intento di queste Inquisizioni non era dottrinale, non dovevano investigare le eresie o convertire gli ebrei o assicurarsi che gli ebrei restassero fedeli cattolici dopo essersi convertiti; niente di tutto questo. Il loro vero scopo, invece, mai dichiarato pubblicamente ma ammesso in privato, era squalificare le nuove conversioni e far sì che il maggior numero di quei nuovi cristiani tornassero a essere ebrei. Era a dir poco sorprendente, e costituiva una revisione enorme non solo del passato degli ebrei ma dell’intera storia del cristianesimo, che per il dottor Netanyahu coincideva con la storia tout court. L’Inquisizione, stando alle sue parole, era un «momento cruciale» o una «giuntura critica», una «peripezia», un «climaterio» per il cattolicesimo medievale. Per secoli – in sostanza per tutta la durata delle Crociate – l’obiettivo primario della Chiesa era stato creare più cattolici; questo era un punto su cui sia ebrei che cattolici concordavano da tempo immemore; per secoli era stato probabilmente il loro unico punto d’incontro, ed era una premessa che anche il dottor Netanyahu accettava. Tuttavia, sosteneva il professore, verso la fine del quindicesimo secolo, alla vigilia della partenza di Colombo a voler essere precisi, l’obiettivo era improvvisamente cambiato, e la Chiesa si era mostrata interessata a selezionare il suo gregge e restituire gli agnellini più giovani alla loro stirpe di appartenenza. Il dottor Netanyahu, da quanto potevo vedere, aveva dedicato tutta la sua carriera accademica a dimostrare questa evidenza e a spiegare perché era avvenuto quel cambiamento. E mentre non avevo speranza di poter soppesare quell’evidenza io stesso – tutte le parole arcane che citava in spagnolo e in portoghese e persino in latino e in ladino senza traduzione –, si trattava di una spiegazione che faceva davvero scattare qualcosa dentro di me. Mi disturbava. Perché non era davvero una spiegazione. Era più come un… mi verrebbe da dire un dogma. Perché, secondo il dottor Netanyahu, la Chiesa voleva riportare al giudaismo gli stessi convertiti che aveva trascorso la maggior parte delle Crociate a procurarsi? Perché i convertiti erano cattivi cattolici? No, non tutti. O perché erano troppo bravi a essere cattolici? Di nuovo, non tutti. Piuttosto, la ragione era un’altra: fintanto che i cattolici avevano ancora bisogno di un popolo da odiare, gli ebrei dovevano restare un popolo destinato a soffrire.
DUE PAROLE
Nell’America degli anni ’60 il mondo accademico e di salotto statunitense fa l’incontro di Ben-Zion Netanyahu, padre dell’oggi famoso Bibi. Con il compito di dover accompagnare e guidare per un intero weekend il suo ospite, il professore di storia Ruben Blum si scontra con la sua versione più ancestrale e primordiale. Un prototipo ebreo che sembra lo specchio sgraziato, politicamente scorretto e ingombrante di se stesso. Il professor Netanyahu sembra insomma incarnare e gravarne con la sua presenza fisica quella distanza che si staglia fra l’ebraismo statunitense e quello Sionista. Un libro che, personalmente, ho trovato pedante, poco originale. Ci serviva l’ennesimo lamento portnoiano a farci capire quanto dissacrante possa apparire l’autoironismo ebraico? Un libro che stenta a prendere il volo e che accenna qualche spicco d’interesse dalla sua metà in avanti. Un testo che è sì capace di mischiare (e giocare) con la storia e i conflitti culturali, ma che probabilmente ben presto dimenticherò nei meandri dell’anonimato.