Jung Chang – Cigni selvatici. Tre figlie della Cina


Mia madre sfiorò la morte. Dovettero praticarle una trasfusione di sangue e un raschiamento dell’utero. Quando riaprì gli occhi dopo l’intervento, vide mio padre seduto al suo capezzale. Le prime parole che disse furono: Voglio il divorzio. Mio padre si profuse in scuse: non aveva idea che fosse incinta, come del resto neanche mia madre. Lei sapeva di avere saltato un ciclo mensile, ma aveva pensato che fosse il risultato delle fatiche estenuanti della marcia. Mio padre le disse che fino a quel momento non sapeva neanche che cosa fosse un aborto spontaneo. Le promise che in futuro sarebbe stato più premuroso, e le ripeté più volte che l’amava e che sarebbe cambiato. Mentre mia madre era in coma, le aveva lavato i vestiti impregnati di sangue, un gesto molto insolito per un cinese. Alla fine mia madre acconsentì a non chiedere il divorzio, ma disse che voleva tornare in Manciuria e completare gli studi per diventare medico. Spiegò a mio padre che non sarebbe mai riuscita a soddisfare la rivoluzione, per quanto si sforzasse di farlo; non riusciva a ottenere altro che critiche. Tanto vale che lasci perdere, gli disse. Non farlo! le rispose mio padre, in ansia. Sarà interpretato come una prova che hai paura delle privazioni. Verrai considerata un disertore e non avrai un futuro. Anche se ti accettassero all’università, non riusciresti mai a ottenere un buon lavoro. Saresti discriminata per tutto il resto della tua vita. Mia madre non aveva ancora capito che era impossibile uscire dal sistema, perché anche quella, com’era caratteristico, era una legge non scritta, ma percepì il tono estremamente pressante nella voce di mio padre: una volta che si era nella rivoluzione, era impossibile uscirne. Era ancora in ospedale quando, il primo ottobre, lei e i suoi compagni furono avvertiti di attendere un annuncio speciale alla radio, che sarebbe stato trasmesso dagli altoparlanti installati tutt’intorno all’ospedale. Si riunirono per ascoltare Mao che proclamava la fondazione della Repubblica Popolare Cinese dalla sommità della Porta della Pace Celeste a Pechino. Mia madre si mise a piangere come una bambina: la Cina che aveva sognato, per cui aveva combattuto e sperato, finalmente esisteva; nasceva il Paese a cui avrebbe potuto consacrare il suo cuore e la sua anima. Mentre ascoltava la voce di Mao annunciare che il popolo cinese si era alzato in piedi, si rimproverò per le sue incertezze: la sua sofferenza era insignificante in confronto alla grande causa della salvezza della Cina. Si sentì molto orgogliosa e piena di spirito patriottico, e dentro di sé giurò che avrebbe aderito alla rivoluzione per sempre. Quando il breve annuncio di Mao ebbe termine, lei e i suoi compagni lanciarono grida di esultanza e gettarono in aria i berretti, un gesto che avevano imparato dai russi. Poi, dopo essersi asciugati le lacrime, fecero una piccola festa per celebrare.

DUE PAROLE

Attraverso il racconto della vita di tre donne, di tre generazioni che si susseguono tra nonna madre e figlia, si srotola il lungo tappeto rosso della storia cinese. Dai signori della guerra dei primissimi del ‘900, l’invasione giapponese e la relativa conquista della Manciuria, per poi passare alla liberazione da parte dei russi, travolti a loro volta dall’emergente Kuomintang… fino alla nascita, crescita, instaurazione e attecchimento dei dettami Maoisti e della rivoluzione culturale. Un libro denso, affascinante, che apre una porta gigantesca su questo paese così affascinante e misterioso. Ripercorrendo la storia della propria famiglia, quanto mai opportuna perché pienamente parte attiva dei vari periodi culturali, Jung Chang ci racconta biograficamente azioni e pensieri di queste iconiche donne. Si nota, con lo scorrere del tempo narrativo, come l’ideologia modellasse i pensieri e le abitudini. Si evince il vero dilemma dei primi entusiasmi ideologici di ogni sorta. L’ingenuità con cui il popolo accoglie un cambiamento (fino al caso più alto ed estremo della rivoluzione). Chang ci pone di fronte alla dicotomia di ogni condizione sociale. L’ebrezza di vedere i sogni comuni diventare realtà e l’avvilente (spesso drammatica, finanche spaventosa) necessità di convivenza con le regole, con le istituzioni e con la rigidità dei regimi disposti a ogni costo a difendere la propria interpretazione della vita.