Vasilij Grossman – Vita e destino


L’abbattimento del bestiame infetto richiede una certa preparazione: il trasporto, la raccolta nei macelli, l’intervento di personale qualificato, lo scavo delle fosse. Chi aiuta le autorità portando le bestie malate al mattatoio o catturando gli animali in fuga, non lo fa perché odia vacche e vitelli, ma per istinto di conservazione. Allo stesso modo, quando a finire macellati sono gli esseri umani, molti esseri umani, la gente non viene mai sopraffatta da un odio sanguinario per i vecchi, le donne e i bambini destinati allo sterminio. Per questa ragione anche la campagna per il massacro su larga scala di esseri umani abbisogna di una preparazione adeguata. L’istinto di conservazione non basta, occorre risvegliare nella massa la repulsione e l’odio. Fu proprio in questo clima di repulsione e odio che venne pianificato e compiuto lo sterminio degli ebrei ucraini e bielorussi. Tempo addietro, sempre risvegliando e aizzando la furia delle masse, su quelle stesse terre Stalin aveva già messo in atto la sua campagna di eliminazione dei kulaki e lo sterminio dei seguaci di Trockij e Bucharin, sabotatori e deviazionisti. L’esperienza insegna che, durante campagne simili, la maggioranza obbedisce ipnoticamente ai voleri di chi comanda. C’è, poi, una minoranza ristretta che fomenta l’iniziativa: idioti convinti, sanguinari e malvagi, oppure gente interessata al proprio tornaconto, a appropriarsi di cose e case altrui o di posti vacanti. Sebbene atterriti dal massacro in corso, molti, quasi tutti, nascondono ciò che sentono non solo ai familiari, ma anche a se stessi, e riempiono le sale dove si illustrano le campagne di sterminio. E per quanto frequenti siano gli incontri e ampie le sale, la tacita umanità del voto non viene quasi mai violata. Ancora più raro è, ovviamente, il caso in cui, alla vista di una cane rabbioso, qualcuno dedica di non distogliere lo sguardo dagli occhi supplichevoli dell’animale di prenderselo in casa, nella casa in cui vive con moglie e figli. Ma qualche esempio c’è stato, nonostante tutto. La prima metà del XX secolo sarà ricordata come l’epoca delle grandi scoperte scientifiche, delle grandi rivoluzioni, di mutamenti sociali grandiosi e di due guerre mondiali. Ma la prima metà del XX secolo passerà alla storia dell’umanità anche come l’epoca dello sterminio capillare di enormi strati della popolazione europea in nome di teorie sociali e di razza. Per comprensibile pudore, al giorno d’oggi si preferisce tacerne. Uno dei tratti più stupefacenti della natura umana che affiorò in quegli anni fu la remissività. Ci furono casi in cui in prossimità del patibolo si formavano code lunghissime che le vittime stesse provvedevano a regolare. Ci furono casi in cui l’attesa dell’esecuzione durava un giorno intero, dal mattino a notte fonda, magari sotto un sole cocente, e allora le madri – previdenti – portavano con sé bottiglie d’acqua e un pezzo di pane per i bambini. Consapevoli dell’arresto imminente, milioni di innocenti preparavano per tempo un fagotto con la biancheria e un asciugamano e per tempo si congedavano dai propri cari. Milioni di persone vissero in lager giganteschi che non solo avevano costruito, ma che erano loro stessi a sorvegliare. E non furono decine di migliaia né milioni, bensì moltitudini sterminate i testimoni rassegnati e docili di quella strage degli innocenti. Non solo: quando era loro ordinato, quegli stessi testimoni votavano a favore dello sterminio, acclamando a gran voce il massacro. Tanta succube obbedienza pareva inimmaginabile. Certo, qualcuno si oppose, qualcuno tra i condannati mostrò coraggio e tenacia, ci furono delle scommosse, alcuni misero a repentaglio la propria vita e quella della dei propri cari pur di salvare persone che conoscevano appena o che non conoscevano affatto. E tuttavia la remissività della massa resta un fatto inconfutabile. Che cosa ne deduciamo? Un nuovo tratto della natura umana? No. Piuttosto un nuovo modo, tremendo, di plagiare gli esseri umani. La violenza estrema dei sistemi totalitari si è mostrata capace di paralizzare i cuori su interi continenti. Asservito al nazismo, il cuore dell’uomo proclama che la schiavitù – male nefando, latrice di morte – è il solo e unico bene. Il cuore-traditore non rinnega i propri sentimenti umani, ma elegge a forma suprema di umanità i crimini compiuti dal nazismo e accetta di dividere gli uomini in puri e degni di vivere e impuri e indegni della vita. Per sopravvivere l’istinto scende a patti con la coscienza. In suo soccorso sopraggiunge la forza ipnotica di idee grandiose. Che esortano a compiere qualunque sacrificio, a usare qualunque mezzo per raggiungere lo scopo supremo: la grandezza futura della Patria, la felicità del genere umano, di una nazione o di una classe, il progresso mondiale. Ma accanto all’istinto di conservazione e alla fascinazione delle teorie agisce anche una terza forza: la paura al cospetto della violenza senza limiti di uno stato potente, il terrore di fronte all’assassinio posto a fondamento della quotidianità. In uno stato totalitario la violenza è talmente grande che smette di essere strumento e diviene oggetto di culto e di esaltazione mistica e religiosa. Come si spiegano, altrimenti, le posizioni di alcuni intellettuali ebrei non privi di capacità logiche, i quali affermarono che lo sterminio del loro popolo era necessario alla felicità del genere umano, e che si dissero pronti a condurre al macello i propri figli, ripetendo per il bene della Patria il sacrificio compiuto da Abramo? Come si spiega, altrimenti, che un poeta figlio di contadini, anche lui non privo di ragione e di talento, abbia scritto con grande convinzione un poema inneggiante a un’epoca sanguinaria di grandi sofferenze per la campagna, un’epoca che aveva sbranato anche un uomo onesto e semplice, un lavoratore come suo padre? Uno dei molti grazie ai quali il nazismo plagia l’uomo è rendendolo cieco – o quasi – a tutto. L’uomo non si capacita di essere destinato allo sterminio. L’ottimismo di chi ha un piede nella fossa lascia attoniti. È una speranza folle, a volte disonesta, altre vile, a generare la remissività che a tale speranza si addice: patetica, quando non vile anch’essa. La rivolta del ghetto di Varsavia, quelle di Treblinka e di Sobibor, le piccole ribellioni dei Brenner sono figlie della disperazione più nera. Tuttavia, la disperazione più totale e lucida non ha generato solo rivolte e resistenza, ma anche il desiderio – che l’uomo normale ignora – di finire giustiziato. Perché nelle file che conducevano a fosse piene di sangue si litigava per avanzare di un posto. Non abbiate paura, ebrei. Risuonava allora una voce esaltata, folle, quasi esultante. Cinque minuti e abbiamo finito. Tutto, ogni cosa generava un’obbedienza succube: la disperazione come la speranza. Perché chi è unito da uno stesso destino e diviso da un diverso carattere. Proviamo a riflettere su ciò che deve provare e sentire un uomo per giungere ad accettare serenamente una morte ormai prossima. Riflettiamoci tutti, ma in primo luogo quanti pretendono di insegnare come si dovrebbe reagire in condizioni che, per caso fortunato, costoro – insulsi maestri – non hanno conosciuto. Avendo appurato che l’essere umano china il capo di fronte a una violenza senza limiti, è bene trarre anche un’ultima deduzione, utile per comprendere l’uomo e le sue sorti future. Nella morsa della violenza totalitaria la natura umana subisce un mutamento, si modifica? L’uomo perde il proprio desiderio innato di libertà? Dalla risposta a queste domande dipendono le sorti dell’uomo e del totalitarismo. Una mutazione della natura umana implicherebbe il trionfo universale ed eterno della dittatura, mentre l’anelito inviolabile alla libertà condannerebbe a morte il totalitarismo. La gloriosa rivolta del ghetto di Varsavia, a Trebinka e Sobibor, per esempio, l’imponente movimento partigiano in decine di paesi che Hitler aveva asservito, i disordini di Berlino del 53 e in Ungheria nel 56, dopo la morte di Stalin, così come le rivolte nei lager della Siberia e dell’estremo oriente sovietico, i moti di liberazione della Polonia, il movimento studentesco per la libertà di pensiero in numerose città, gli scioperi in molte fabbriche, hanno dimostrato che il desiderio di libertà non può essere sradicato. È stata soffocata, la libertà, ma è sopravvissuta. Un uomo ridotto in schiavitù diventa schiavo per volontà della sorte, non per sua natura. Il desiderio congenito di libertà non può essere amputato: lo si può soffocare, ma non distruggere. Il totalitarismo non può fare a meno della violenza. Se vi rinunciasse, cesserebbe di esistere. Il fondamento del totalitarismo è la violenza: esasperata, eterna, infinita, diretta o mascherata. L’uomo non rinuncia mai volontariamente alla libertà. E questa conclusione è il faro della nostra epoca, un faro acceso sul nostro futuro.

DUE PAROLE


L’opera titanica di Grossman porta in continuo contrasto i piani macroscopici del destino dell’umanità con quelli microscopici del singolo individuo, sia esso socialmente rilevante o meno. Non è un caso che la figura della madre in senso lato sia una costante nella prosa dell’autore. Quale essere più di una madre rappresenta la completa dedizione per la propria minuscola – e al tempo stesso eroica – causa? Senza cercare di ripetere quello che ho già espresso nella prima parte di lettura e commento a questa dilogia (vedi: Stalingrado) vorrei rimarcare la portata, la complessità, la pienezza e l’incisività di questo testo. Personalmente, penso di essere stato innanzi a uno dei romanzi più significativi e multidisciplinari mai concepiti (romanzo storico, di filosofia politica, di religione, di scienze, di teoria della lotta, militare, romanzo di accusa e elogio sovietico, di narrativa, d’amore, d’avventura, picaresco, moderno, classico, ideologico, vitale). Vita e destino ha il pregio di esplodere e poi atterrare e poi sublimare eternamente il poderoso prodromo creato con il tomo precedente. Lo fa in maniera caleidoscopica, sovrana. Le vite dei protagonisti (come già abbiamo detto importanti o meno essi siano) arrivano finalmente a un dunque. Giungono di fronte al loro destino che si vede compiere e accadere simultaneamente a quello Europeo. Il destino è dunque un traguardo, un momento angolare in cui l’avvenimento accade. Gli uomini, i popoli, gli individui, gli insiemi o qualsiasi altro ente non può fare altro che farsi trovare pronto o meno all’inevitabile (che è lo scorrere, non il compiere). Ma i suoi pensieri, le sue decisioni – e soprattutto – le sue azioni, contribuiscono o meno al realizzarsi del suddetto destino? Chi e come costruisce, anzi, costituisce gli accadimenti? Quali interconnessioni hanno, fra loro, e che significato inseguono? L’accadimento non porta nessuna felicità, non porta forse nemmeno nessuna rivelazione. Il giorno dopo che la Russia si risveglia dal torpore dell’assedio scoprendosi vincitrice e non soccombente, realizza allo stesso momento il suo stato di degrado, sterminio e desolazione. Eppure è vita, in nuce. Porta con sé il germoglio della rinascita, ovvero sia: dello scorrere inesorabile degli eventi e dei suoi accadimenti. Il compimento di ogni protagonista è superlativo, si tratta cioè di un completo ribaltamento di prospettiva. Ho trovato un filo conduttore fra i colpi di scena (tutti simili, per nefandezza) del non-compimento dei personaggi del romanzo. Tutti i protagonisti, a ben pensarci, si ritrovano infatti in uno stato diametralmente opposto a quello che ci si poteva aspettare dal proprio futuro, dal proprio desiderio. Viene in mente perciò il Manfredi della Divina Commedia che, seppur scomunicato e destinato al pentimento eterno per le proprie colpe, si ritrova salvato da Dio proprio in punto di morte, nell’agone del campo di battaglia. “Orribil furon li peccati miei / ma la bontà infinita ha sì gran braccia / che prende ciò che si rivolge a lei”. In termini diametralmente opposti, le facce di “Vita e destino” si ritrovano ugualmente perdute, diametralmente ribaltate dalla salvezza alla tragedia. E sebbene Grossman ci abbia insegnato che la tragedia è il germe di ogni rinascita (cosa, più di un olocausto può obnubilare questo concetto?) il destino dei nostri eroi è amaro. Krymov, comunista purissimo, di prima data, vituperato e massacrato come spia. Spiridonov che ha difeso vissuto e lavorato in fabbrica per tutta la guerra lasciandola incustodita solo l’ultimo giorno, quello della vittoria. Šturm, scienziato, uomo di rigore, teorico sedotto verso l’altrui calunnia nella firma di una lettera che difende l’idelogia di stato ai danni di quella morale. Così anche Zenja che abbandona all’ultimo il suo nuovo amore per l’amore impossibile con Krymov. E la moglie di šturm, con la tragedia suprema: la perdita di Toljia.
Grossman trova la foze e il coraggio per intessere tutti questi fili. È un sarto sublime che, poderosamente, ci mostra come l’atomico sia essenza e forse volere del cosmico, dell’universale lasciando nelle mani di noi mortali il libero arbitrio e la decisività delle nostre azioni e delle loro conseguenze. Per togliermi di impiccio, lascio alle sue parole il modo di dirlo poeticamente : “Anche lei, vecchia com’era, campava di speranze, non perdeva la fiducia ma aveva paura del male, era piena di angosce per i vivi e non li distingueva dai morti. Era lì, in piedi a guardare le rovine della sua casa, a godersi il cielo di primavera senza neanche rendersene conto, lì, in piedi a chiedersi perché il futuro dei suoi cari fosse così fosco, perché avesse commesso tanti errori, in vita sua; e non si accorgeva che la risposta, la luce e la speranza erano proprio in quella vaghezza, in quella nebbia, nel dolore e nel caos; lo conosceva, lo capiva con tutto il cuore il senso della vita che era toccata a lei e ai suoi cari, e per quanto né lei né loro potessero dire che cosa avesse in serbo la sorte, e per quanto sapessero tutti che in epoche tremende l’uomo non è più artefice del proprio destino e che è il destino del mondo ad arrogarsi il diritto di condannare o concedere la grazia, di portare agli allori o di ridurre in miseria, e persino di ridurre in polvere di lager, tuttavia né il destino del mondo, né la storia, né la collera dello Stato, né battaglie gloriose e ingloriose erano in grado di cambiare coloro che rispondono al nome di uomini; ad attenderli potevano esserci la gloria per le imprese compiute oppure la solitudine, la disperazione, il bisogno, il lager e la morte, ma avrebbero comunque vissuto da uomini e da uomini sarebbero morti, e chi era già morto era comunque morto da uomo: è questa la vittoria amara ed eterna degli uomini su tutte le forze possenti e disumane che sempre sono state e sempre saranno nel mondo, su ciò che passa e ciò che resta.