Qubostan 12 Agosto

 

La stazione dei bus di Baku si trova fuori Baku e ci si arriva comodamente in bus o in taxi, a preferenza. Ci alziamo di buona lena e troviamo un gentilissimo tassista che si industria per mandarci a Qubostan, Gubastana per dirla in modo loro, senza farci troppo penare. Ci scarica in piazza e ci disegna su uno scontrino stropicciato tre numeri, 1, 9 e 5. Saliamo sul pullman e, pronti via, ci addormentiamo torpidamente. Quando apro gli occhi il mio orologio dice che il supposto tragitto di un’ora è scaduto da un pezzo. Schiaffeggio il Mattia Leonardi per svegliarlo e gli rivelo il mio dubbio. Il tizio di fianco a noi che vede tutto il teatrino ride sotto i baffi. Muove le sopracciglia e getta il pollice dietro la spalla. “Di là”, fa gesto, “passato”. Non sbaglia mica perché effettivamente ci troviamo a Elet, una sperduta località in mezzo alla polvere con capre randagie e un gruppetto di signori seduti fuori quello che noi europei chiameremmo bar. Ci accomodiamo, prendiamo delle birre e assaggiamo del pesce essiccato che ci allappa la bocca. Spieghiamo a gesti che fino a poco prima eravamo decisi a vedere le pitture rupestri dei cavernicoli ed i vulcani di fango lì vicino. A Qubostan, diciamo loro, c’erano i taxi, ma anche lì ce n’è uno e, capirete, l’accordo non tarda ad arrivare. Gesti, segni, disegni. Siamo noi i cavernicoli. Ci stringiamo nella vecchia Lada del guidatore con i denti d’oro. In Azerbaijan tutti hanno i denti d’oro, è una parata di carati nelle bocche, una catena di sorrisi zecchini. Anche io ho del metallo in bocca, certo meno prezioso, è da giorni che mi chiedo cosa ne pensino. Saliamo. I sentieri sono sterrati, lunari. I percorsi non asfaltati sono ricavati sopra a viadotti di gas o petrolio. Le valli intorno a noi sono smisurate e brulle, aride, secche, rocciose, piene di polvere. Arrivati in cima alla collina del fango il paesaggio è marziano. Si sente la terra borbottare, come un lontano lamento di quelle fastidiose zanzare umane che aspirano il sangue nero della terra. Il fango è vivo, mi ricorda la massa intelligente di Solaris, per chi avesse letto Stanislav Lem. Lasciati i vulcani diamo una sbirciatina qualche chilometro più a nord, qui, dodicimila anni fa, altri uomini avevano dato sfogo alla loro vena artistica. Sulle rocce ci sono sciamani, cavalli, buoi. Che impressione l’umanità creativa. All’offerta di un passaggio fino a Baku rifiutiamo. Ce la caviamo di per nostro, e preso un bus di ritorno, ci addormentiamo nuovamente. Questa volta siamo più fortunati, perché il Matteo Angelino si accorge in tempo dell’altro posto che volevamo vedere. E’ una spiaggia balneabile a ridosso di vecchie installazioni petrolifere. C’è la gente che ci fa il bagno davvero, nel petrolio. Ci arriviamo a piedi, la osserviamo da lontano, è sporca, argillosa, inquinata. Il mare che la bacia è verde smeraldo di poca trasparenza, poi giallo paglia, celeste e turchese brillante. Ci togliamo le magliette, godendoci il clima surreale di un paesaggio nucleare. Facciamo l’incontro più bello della giornata. L’ennesima vecchia Lada si ferma e scendono due uomini e un bimbo. Sono un pugile, un lottatore e relativo figlio. Tutti a torso nudo. Il pugile butta sulla cinquantina, ha folti baffi, radi capelli e un torace largo quanto un cassone. Si guarda in giro, prende il sasso più pesante della spiaggia e comincia a sollevarlo in alto e in basso sopra la testa, a ripetizione serrata, poi mostra i bicipiti. Pare suonato. Il lottatore ci guarda e ammicca. “Forte eh?” dì li a poco sono in acqua, nuotano, escono. Della sabbia e dei rifiuti sembrano non curarsi proprio. Bagnaticci, si mettono a tagliare la legna per accendere una stufa portatile e ci invitano e bere il the con loro. Il pugile prende delle foto, ha la macchina colma di ogni tipo di reliquia. Sono ritratti di lui a caccia, ne va fiero. Ci spieghiamo a gesti, ancora, segni, usiamo la sabbia per scrivere numeri e immaginare cartine. Quando capisco che siamo Italiani il pugile gonfia il petto e lo percuote come uno scimmione. “Berlusconi” dice, e mostra il pollice alto di approvazione. Capiamo dal contesto che preferiscono l’immagine del politico mattatore d’impatto, del duro che non ha paura. E io penso alla stretta di mano di Letta di ieri sera. Rieccoci a raccontare per opposti. Ci sediamo a bere il the su enormi massi disposti a seggioline dal vigoroso azero e il lottatore ci mostra le sue cicatrici. Ha due buchi sulla spalla poco sopra una tigre che gli morde il pettorale. Mima il segno del grilletto e accenna “Armenia”, grilletto, e fa spallucce. Sorseggiamo ancora un po’ di the e siamo costretti a salutare. Senza accorgerci abbiamo passato tre ore in loro compagnia, approfittando della loro cordialità in quel salottino improvvisato in mezzo alla putrefazione mondiale, della natura e dell’uomo, dell’economia e delle risorse, ma non certo dell’ospitalità. La sera ceniamo in centro e sulla via per l’hotel fermiamo un taxi. Mostro il biglietto con l’indirizzo di casa e mi l’autista mi chiede di leggere. Noi non sappiamo il loro alfabeto. “Street street!” chiede lui, fa segno di non riuscire a vedere sul biglietto. “Read read!” Diciamo noi. Non vede, mette le dita a forchetta sugli occhi e fa segno di no. “Come fa a guidare se non vede?” mi chiedono i ragazzi. E ora che siamo giunti in camera posso dirvi con discreta certezza che fosse presbiopia.

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