Il polpo si sgroviglia sulle tavole della barca. Brutta l’agonia dei pesci. Di solito s’abbrevia col morso in testa. Se sono più grossi, un chiodo tra gli occhi, che si storcono come quelli delle bambole rotte. Il polpo fa disgusto però. Devi rovesciargli la testa come un guanto e mordere quella carne viva, molle col sapore salaticcio del moccio quando uno ha il raffreddore: no, è impossibile. Ma qualcosa si deve fare per questo polpo, è uno scempio. Un tentacolo quasi staccato, un occhio, una pallina bianca e nera, pendulo, trattenuto appena da un filamento, la pelle di un altro tentacolo strappata via uncinata dal tridente, e al posto del tentacolo un orribile verme sgusciato fuori che si contorce. Sette vite come i gatti e le lucertole. Ninì distoglie per un momento lo sguardo da quella cosa che la morte ha masticato e vomitato nella barca e lo posa lontano sul mare accecante, decomposizione luminosa sotto la furia del sole. Nelle tempie il tam-tam. Il chiodo che serve a caricare l’asta del fucile sembra adatto. Ora il punto giusto tra i due occhi. Spinge il chiodo nella carne gelatinosa. Uno schizzo di materia sierosa biancastra gli scivola attaccaticcio sulla mano. Il cervello. Difficile trovarlo di solito, quello dei polpi dev’essere piccolissimo nella contrattile testa testicolare che hanno, tutt’un’acquetta bianca, come il cervello di Glauco, è probabile.
DUE PAROLE
Romanzo evocativo, che riporta immediatamente a immagini dell’Italia anni ’50 e ad un contesto preciso: quello di un teatro partenopeo e di una luminosa estate dove va in scena, in un asfissiante microcosmo nautico della durata di una sola mattina, la vita e la memoria di tre giovani bighelloni napoletani. Un romanzo etereo e impalpabile, dalla nostalgia barocca che, secondo il mio modestissimo parere, forse per distanza, forse per pochezza del sottoscritto, non lascia segni o incisioni da inserire a referto.