Samuel Butler – Erewhon

Esito a dirlo, ma non mi sembra vi sia nulla di male a punire gli uomini per le loro sventure o a premiarli per la loro fortuna pura e semplice; è questa una condizione normale della vita umana, e nessuna persona di buon senso può dolersi di dover sottostare alla legge comune. Non abbiamo scelta. È vano dire che gli uomini non sono responsabili dei loro mali. Che cosa significa responsabilità? Indubbiamente essere responsabili significa essere tenuti a rispondere quando ci è richiesto, e tutti gli esseri viventi sono responsabili della propria vita e dei propri atti se la società ritiene opportuno chiamarli in causa attraverso il suo legittimo rappresentante. Quale colpa ha commesso l’agnello perché noi lo alleviamo, accudiamo ai suoi bisogno e gli diamo un’illusione di sicurezza con l’espresso proposito di ucciderlo? Ha la disgrazia di essere un creatura appetibile per la società e senza mezzi di difesa: ecco la sua colpa. Questo concetto può condurre molto lontano. Chi fisserà i limiti ai diritti della società, se non la società stessa? E fino a che punto si può avere riguardo per l’individuo, se la società non ci ha il suo guadagno? Perché il figlio di un milionario deve essere così ampiamente premiato, se non perché in tal modo – e ciò è fin troppo ovvio – si incrementa il benessere comune? In verità, non possiamo onestamente sminuire troppo il merito di chi ha un padre ricco senza mettere in pericolo il nostro stesso diritto di possedere i beni a cui tanto teniamo. Altrimenti non potremmo permettergli di tenersi i soldi nemmeno per un’ora: glieli troglieremmo subito. Perché la proprietà è un furto; ma quand’è così, siamo tutti ladri, di fatto o nelle intenzioni, e abbiamo perciò ritenuto necessario organizzare i nostri furti come abbiamo dovuto organizzare la nostra lussuria e il nostro istinto vendicativo. Proprietà, matrimonio, legge; la regola e le convenzioni sono per l’istinto come il letto per il fiume; e guai a colui che indebolisce gli argini mentre l’acqua del fiume scorre.

 
DUE PAROLE

Ho assegnato a questo romanzo la stella di lettura raccomandata per tre capitoli particolari, quelli che l’autore, fingendo di riprendere da un testo Erewhoniano, chiama “il libro delle macchine”. Ma andiamo per gradi e iniziamo dal guscio dell’opera, che si posiziona nel filone di letteratura satirico-fantastica avviata da Swift con i viaggi di Gulliver (cui il libro è praticamente identico per concezione) preceduti a sua volta dal capostipite Robinson Crusoe. Una continua evoluzione del genere. Se nel Defoe si comincia a intravedere l’uomo affacciarsi alle diversità, nel Gulliver se ne sviluppa il confronto. Con Butler si arriva infine alla riflessione. Fa sempre un certo effetto pensare che la stesura del testo abbia quasi centocinquant’anni tanto scottano, oggi, i capitoli sopra citati, ora che il dibattito sulle intelligenze artificiali è quanto mai acceso. Ma che cos’è Erewhon? In prima istanza un gioco di parole che annuncia la cerebralità del viaggio mentale “no where”, ergo, un’invenzione. Eppur anche un preciso istante razionale: “Now, here”. Tutta l’opera mischia l’attualità (accompagnata al peso della sua riflessione) alla finzione fiabesca. Il falso, però, un po’ come avveniva nel Gulliver, non è mai lasciato al caso ma indica sempre un pretesto con il quale contropesare la realtà attuale. Butler disegna una società speculare, umana, niente affatto aliena, che arriva a scoprire dopo un lungo e pericoloso viaggio nelle terre desolate di una lontana colonia inglese di fine ‘800. In questa società vige un determinismo ferreo. Le usanze dei cittadini che la compongono sono bizzarre e, per paragonarle ancora una volta al Gulliver, non sono evidenti o innate – come le gigantesche disproporzionalità fisiche dei lilliputziani – ma sono una scelta di comune adozione, una precisa interpretazione della vita. Immaginiamoci una nuova città del sole di Campanella, per intenderci. I cittadini di Erewhon considerano le malattie dei reati (si legga l’estratto dal testo per capire la genialità del gioco dell’autore) e i crimini come delle malattie. Perché? Un determinismo così esasperato li ha portati a pensare che la natura stessa di ogni uomo sia disegnabile e circoscritta dai limiti del fato (un malato è, pertanto, predestinato quanto un genio, o un uomo di successo, e ne deve quindi gestire la responsabilità). Non è un caso, infatti, che le nascite non siano viste di buon occhio. Oltre all’indebolimento, visto come malattia, nella fase di gravidanza, c’è il fardello etico della “responsabilità” di scelta nel portare un nuovo umano in questa terra. La vita, insomma, è un peso predeterminato. Un fardello che siamo obbligati a voler e dover scegliere. Lo spazio di mezzo fra l’evoluzione e il libero arbitrio è piccolissimo e per questo motivo gli abitanti di Erewhon decisero di ripudiare in toto ogni forma di tecnologia (il protagonista verrà perseguito per il possesso di un semplice orologio). Cosa c’entrano le macchine in tutto ciò? Le macchine, come un fiore, un albero o un semplice animale, sono il risultato di un progetto più grande e incomprensibile. Geniale, a dir poco geniale, è il ribaltamento dei ruoli nella concezione erewhoniana delle stesse. Butler, facendo parlare un accademico tramite il suo testo, si immagina l’eventualità che le macchine siano già nostre padrone, in quanto la schiavitù che ci lega loro (direttamente, ma soprattutto indirettamente) ne giustificherebbe un senso più alto. Chi ci dice, in fondo, che la nostra evoluzione non sia umano-centrica ma macchino-centrica? Ne riporto un breve passaggio, ma tengo a precisare che i tre capitoli vanno letti per intero, e attentamente.
Esse hanno approfittato dell’ignobile preferenza dell’uomo per i suoi interessi materiali di fronte a quelli spirituali, e lo hanno vilmente indotto a prestar loro quell’elemento di lotta e di competizione senza cui nessuna specie può progredire. Gli animali inferiori progrediscono perché lottano fra di loro: il più debole soccombe, mentre il più forte si riproduce e trasmette la propria forza. Le macchine, incapaci di lottare esse stesse, hanno spinto l’uomo a lottare in loro vece: finché egli compie il proprio dovere regolarmente, tutto va bene per lui (almeno così crede) ; ma appena cessa di combattere per favorire il progresso delle macchine, incoraggiando le buone e distruggendo le cattive, egli resta indietro nella corsa per il potere; e ciò significa che si troverà a soffrire mille disagi e forse perirà. Quindi, già adesso le macchine servono l’uomo solo a patto di essere servite, e pongono loro stesse le condizioni di questo mutuo accordo. Non appena l’uomo viene meno ai patti esse insorgono e si autodistruggono, distruggendo contemporaneamente tutto quello che possono, oppure si imbizzarriscono e si rifiutano di lavorare. Quanti uomini vivono oggi in stato di schiavitù rispetto alle macchine? Quanti trascorrono l’intera vita, dalla culla alla tomba, a curare giorno e notte le macchine? Pensate al numero sempre crescente di uomini che esse hanno reso schiavi, o che si dedicano anima e corpo al progresso del regno meccanico: non è evidente che le macchine stanno prendendo il sopravvento su di noi?

 
INFO UTILI

237 pagine, intorno alle 6 ore di lettura.
Edizioni Adelphi – ISBN 9788845903885
in copertina un quadro di Charles Conder