Sylvain Tesson – Sentieri neri


Il dispositivo era la somma delle eredità comportamentali, delle sollecitazioni sociali, delle influenze politiche e delle difficoltà economiche che determinavano i nostri destini pur restando inavvertite. Il dispositivo disponeva di noi. Nel suo modo insidioso e sornione, ci imponeva una condotta senza che ci rendessimo nemmeno conto del suo accresciuto potere. C’è un piccolo verme, il dicrocoelium dendriticum, che infesta le formiche e ne controlla i movimenti costringendole a rimanere immobili su un filo d’erba; qui sono mangiate dagli erbivori che diventano i nuovi ospiti del parassita. Il dicrocoelium è il dispositivo della formica. I microchip al silicio sono i nostri dicrocoelium. Ognuno di noi, pienamente consenziente, porta con sé il suo parassita sotto la forma di uno di quei processori tecnologici che regolano le nostre vite. I papuani si tramandano una visione del mondo nella quale il potere degli spiriti si mescola alla realtà: quello è il loro dispositivo. Il nostro non ci fa mancare le comodità, la salute e un’alimentazione ricca e abbondante, ma ci inocula la sua narrazione e ci sorveglia. Riceviamo le sue informazioni e la sua pubblicità, ci pieghiamo ai suoi imperativi, ubbidiamo alle sue ingiunzioni ed esso ci subissa di intimazioni diluite nel chiacchiericcio generale. Il discorso sul dispositivo è un dispositivo esso stesso. Sui sentieri neri ci inoltravamo nel silenzio sottraendoci al suo influsso. Ogni bosco offriva un rifugio dove le notizie erano deliziose ma difficili da individuare e da registrare: un barbagianni aveva fatto il nido fra le travi di un mulino, un falco attaccava il quartier generale di un roditore, un orbettino danzava tra le radici. Cose così. Avevano la loro importanza ma il dispositivo le ignorava.

DUE PAROLE

Un pellegrinaggio salvifico che spinge il protagonista, completamente deturpato da un grottesco incidente personale, ad attraversare la Francia per la sua lunghezza. Caduto da diversi metri di altezza poiché ubriaco, a causa di un’ebbrezza che si sottintende cronica e insana, l’autore si ritrova letteralmente a pezzi. Sfigurato, distrutto, fuori asse, l’uomo è davanti alla sua rovina. Al punto più basso della sua esistenza. Intraprende così il più classico dei percorsi di purificazione spirituale e morale, ovvero il cammino. C’è sicuramente una sacralità che aleggia nelle pagine di questo testo, sebbene chi scrive dimostri più di una volta di essere completamente intriso di sterile distacco nei confronti della speranza e profusa anaffettività nei confronti del mondo. Come una piccola formica che lentamente, seppur freneticamente, giostra fra una bica e l’altra, lo scrittore bazzica i fondi della sua terra cercando l’essenza di quella Francia perduta che ormai ha lasciato il posto al progresso. Il terreno è appunto quello dei “sentieri neri”, di quei luoghi scuri che ormai tutti rifiutano, perché non adatti all’epoca. C’è un attacco mirato alla modernità (a volte direi anche ingenuo) sebbene ci sia la consapevolezza di non poterla evitare. Esso viene espresso principalmente lavorando sulla percezione del tempo. Camminare, si sa, è in tal senso un espediente formidabile per ricordarci il ritmo della natura e della vita. Libro intriso di umorismo nero, come quando il protagonista si preoccupa di non voler cascare in un ruscello per non inquinarne le acque visto la quantità di farmaci con cui è imbottito il suo corpo. Un viaggio terreno per consegnare alla grandezza e all’oblio del mare i propri errori. E ripartire.