Thomas Bernhard – Sì

Ma tutto ciò che deve essere scritto deve sempre essere ripreso da capo e sempre ritentato, finché almeno una volta riesce approssimativamente, anche se mai in maniera soddisfacente. E fosse pure inutile, fosse pure terribile, fosse pure senza speranza, tuttavia si dovrebbe sempre provare quando abbiamo un oggetto che ci tormenta di continuo con il massimo accanimento e non ci lascia in pace. Pur essendo coscienti che assolutamente nulla è certo e assolutamente nulla è completo, dobbiamo, anche nella massima insicurezza e con i più fondati dubbi, cominciare e portare avanti ciò che ci siamo proposti. Se rinunciamo sempre, prima ancora di aver cominciato, finiamo nella disperazione e infine e definitivamente non usciamo più da questa disperazione e siamo perduti. Come ogni giorno dobbiamo svegliarci e cominciare e portare avanti quello che ci siamo proposti, insomma vogliamo continuare a esistere, molto semplicemente perché dobbiamo continuare a esistere, così dobbiamo cominciare a portare avanti anche un proposito come quello di fissare il ricordo della compagna dello svizzero e non lasciarci scoraggiare già dai primi e probabilmente sempre ricorrenti pensieri di dover fallire in questo proposito. In fondo esistono solo propositi falliti. Avendo almeno la volontà di fallire, riusciamo a procedere e in ogni cosa e in tutto dobbiamo sempre avere almeno la volontà di fallire, se non vogliamo andare a fondo già in partenza, cosa che effettivamente non può essere lo scopo per il quale siamo qui.

DUE PAROLE

Come si evince dall’articolo precedente di questo sito, sono arrivato a “Ja” in quanto unico libro menzionato nella già asciutta e scarna biografia della Kristof. Lei, che leggeva e rideva, e più leggeva più rideva, sembrava – giustamente- estasiata dalla lettura. Dunque: siamo a Bernhard, quindi parliamo di letteratura sopraffina, di un meraviglioso collagene di confusione, disperazione e filosofia. Un vero e propria prosa intestina, cervellotica. Come spesso accade, la trama è del tutto superflua. O per meglio dire, sembra così insignificante da rendere appunto la lettura ridicola (sebbene io, a differenza della Kristof, abbia sì trovato ilarità ma non certo comicità). Si riassume facilmente così: un uomo, il protagonista, uno studioso di scienze naturali, si reca a trovare un suo amico di nome Moritz per confidargli il suo stato d’angoscia (“Nella mia vita ho oltrepassato molto spesso il confine della follia e anche della demenza, ma in quel pomeriggio credevo di non poter più tornare indietro”). Nel suo studio (Moritz è un agente immobiliare) fa la conoscenza di una coppia di “svizzeri”, ivi recativisi per l’acquisto di una proprietà. Il protagonista intreccia una specie di relazione (ma se avete mai letto Bernhard potete benissimo immaginare che il termine relazione non lasci nulla di canonico al proprio significato) con la donna, un’affascinante e oscura bellezza di origini persiane. Come in quasi tutti i suoi scritti, l’uomo è una persona disperata, malata, che soffre di un male incomprensibile e incurabile. Il protagonista è angosciato dall’esistenza, dalla realtà delle cose, dalla vita nel suo semplice stato di esistenza. Sono talmente grandi e inabbracciabili, i temi qui citati, che ho una sorta di timore riverenziale a parlarne. Forse non ne dovrei scrivere. Forse “su ciò di cui non si può parlare di deve tacere”, ma in fondo questo è lo stesso problema del protagonista, l’assurda angoscia che lo spinge a superare il bosco (metafora tanto banale quanto efficace?) per andare da Moritz e raccontare un malessere così semplice da risultare imbarazzante. Ma quindi cos’è il “sì” del titolo? A chi si dice sì? Chi è l’autore del sì e chi il destinatario? È forse lo stesso sì della persiana? (“mi è venuto in mente di aver detto alla persiana durante una delle nostre passeggiate nel bosco di larici che oggi molti giovani si tolgono la vita e che la società in cui questi giovani sono costretti a vivere non ne capisce assolutamente il motivo, e di punto in bianco e nella mia maniera davvero brutale avevo chiesto a lei, alla persiana, se un giorno anche lei si sarebbe tolta la vita. Al che lei si era limitata a ridere e aveva detto Sì.”) è una presa di coscienza della condizione umana? È nella condizione umana che esistono tutti i temi intoccabili e sacri cui accennavo poco fa. L’uomo che non può parlare, non può esprime il proprio stato di essere vivente, di essere finito e mortale. Il fallimento dell’esistenza. L’inutilità o l’effimera felicità dell’esistenza. Cos’è, dunque, un sì? Un’arma? Io penso sia la nostra rassegnazione, ma forse anche la più alta forma di soccombente accettazione della nostra forma, del nostro io. Non ha soluzioni l’uomo, si ha da vivere. La scelta, come ovviamente il suicidio lo è, rimane in nostro possesso. Nella nostra fragilità, insomma, ciò che ci salva (ma ci salva in senso intellettuale e etico) è la facoltà di scegliere. E non intendo il cosa si sceglie, ma solo la possibilità di esercitarla. Come fosse un proiettile, l’unica cartuccia nella mano armata, la scelta, ci appartiene. Fosse anche per una volta soltanto. Non vi è infatti scampo da questa condizione: Bernhard lo sa. In un passaggio si evince semplicemente quanto di Sisifo e della pietra sia in noi: “Noi cerchiamo senza sosta di scoprire dei retroscena e non facciamo un solo passo in avanti, soltanto complichiamo e ingarbugliamo ancor più ciò che è già complicato e ingarbugliato. Cerchiamo un colpevole del nostro destino, che quasi sempre, se siamo onesti, possiamo definire unicamente come sventura. Ci rompiamo la testa su cosa avremmo potuto fare diversamente o meglio e su cosa possibilmente non avremmo dovuto fare, perché ci siamo condannati, ma non porta a niente. La catastrofe era inevitabile, diciamo poi, e ci concediamo un periodo, anche se breve, di quiete. Poi ricominciamo da capo a porci domande e ci rodiamo e rodiamo fino a che siamo diventati di nuovo mezzo pazzi. In ogni momento siamo alla ricerca di uno o più colpevoli, cosicché almeno per quel momento tutto ci diventa sopportabile, e naturalmente, se siamo onesti, torniamo sempre a noi stessi. Ci siamo rassegnati al fatto che dobbiamo esistere, anche se per la maggior parte del tempo contro la nostra volontà, perché non ci è rimasto nient’altro, e tiriamo avanti solo perché sempre e sempre ancora, ogni giorno e ogni momento, ci rassegnamo da capo a questa realtà. E il punto d’arrivo, se siamo onesti, ci è noto da tutta la vita, è la morte, solo che per la maggior parte del tempo ci guardiamo bene dall’ammetterlo. E poiché abbiamo la certezza di non fare altro che avvicinarci alla morte e poiché sappiamo ciò che questo significa, cerchiamo di metterci a disposizione tutti i possibili mezzi per evitare questa consapevolezza e così, se guardiamo bene, in questo mondo non vediamo altro che gente occupata perennemente e per tutta la vita con questa diversione. Questo processo, che in ognuno è il processo fondamentale, debilita e accelera naturalmente tutto lo sviluppo verso la morte.”, ecco ciò che ci nobilita e differenzia dalla maledizione imposta al mito greco: la non eternità. La consapevolezza di essere delle entità temporanee, ergo finite. La fine, l’eterna fine, con la sua facoltà di esercizio, è ciò che ci distingue e che ci rende pensanti.