Come tutto ciò che avveniva nel Paese, anche questa indignazione spontanea contro i sanguinosi crimini degli ebrei era stata ideata e pianificata in anticipo. Allo stesso modo Stalin progettava le elezioni al Soviet Supremo: gli obiettivi venivano scelti in anticipo, si designavano i deputati, dopodiché aveva luogo, secondo il piano, la spontanea designazione dei candidati, la propaganda elettorale a loro favore e, infine, si arrivava alle elezioni popolari. Allo stesso modo si indicevano tempestosi comizi di protesta, esplosioni d’ira nel popolo e dimostrazioni di fraterna amicizia; sempre allo stesso modo, varie settimane prima della parata festiva, ne veniva controllata la radiocronaca dalla Piazza Rossa: «Vedo in questo momento sfilare a gran velocità carri armati…». All’identico modo si descriveva in anticipo l’iniziativa personale di Izotov, Stachanov, Dusja Vinogradova, le adesioni in massa ai Kolchoz, venivano nominati o rievocati i leggendari eroi della guerra civile, si stabilivano le richieste dei lavoratori di investire il salario in prestiti dello Stato, di lavorare senza giorni di riposo; allo stesso modo si dichiarava l’amore di tutto il popolo per il Capo, in anticipo si indicava quali fossero gli agenti segreti di Paesi stranieri, i sabotatori, le spie; dopodiché, nel corso di complicati interrogatori incrociati si sottoscrivevano protocolli dove ragionieri, ingegneri, giureconsulti – ancor di recente ignari di appartenere alla feccia controrivoluzionaria – confessavano poliedriche attività di spie terroristiche. Allo stesso modo venivano preparate lettere che madri dalla voce priva d’espressione leggevano dinanzi ai microfoni, rivolgendosi ai figli soldati; allo stesso modo veniva pianificato in anticipo l’impeto patriottico di Ferapont Golovatyj;8 così venivano nominati i partecipanti alle libere discussioni, se per qualche ragione occorrevano delle libere discussioni, si preparavano e accordavano in anticipo i discorsi dei partecipanti. E improvvisamente, il cinque marzo, Stalin morì. Quella morte venne a intrufolarsi nel gigantesco sistema di entusiasmo meccanizzato, d’ira e d’amore popolare, stabiliti su ordine del comitato di rione. Stalin morì senza che ciò fosse pianificato, senza istruzione degli organi direttivi. Morì senza l’ordine personale dello stesso compagno Stalin. Quella libertà, quella autonomia della morte conteneva qualcosa di esplosivo che contraddiceva la più recondita essenza dello Stato. Lo sconcerto invase le menti e i cuori.
DUE PAROLE
Un libro che ci presenta senza mezzi termini, a volte in maniera anche brutale, ciò che è stato lo Stalinismo e di quella ragnatela ideologica che creano i regimi totalitaristi. È un libro ambizioso, perché prova ed ambisce a voler raccontare la verità. Ed è qui che Grossman si rivela grandissimo scrittore. Capace, come quei pochi, di dare forza e realismo (che ricordiamo è sempre una cosa soggettiva) alle parole. Egli è capace di raccontare con una specie di oggettiva violenza, quello che senza prendere una posizione politica e morale sarebbe assai difficile spiegare. Lo fa raccontando la storia di Ivan Grigor’evič, un esule in ritorno alla sua città dopo quasi trent’anni passati in un lager sovietico. Lo fa, repentinamente, attraverso i ricordi e i racconti delle persone che il protagonista ha incontrato in quei tristi anni. Lo fa con una crudeltà e durezza a volte insopportabili.
“A certi invece dava di volta il cervello, non si calmavano fino alla fine. Li riconoscevi dagli occhi, lucidi. Erano loro quelli che facevano a pezzi i morti e li cuocevano, uccidevano i propri figli e li mangiavano. Si risvegliava in loro la belva, quando l’uomo moriva, in loro. Ho veduto una donna, l’avevano portata sotto scorta al centro distrettuale. Il suo viso era di un essere umano, ma aveva gli occhi d’un lupo. Dicono che questi li han fucilati tutti quanti. Ma non erano loro i colpevoli, colpevoli erano quelli che riducevano una madre al punto di mangiare i propri figli. Ma credi che si trovasse, il colpevole? Hai voglia a cercarlo… È per fare il bene, il bene dell’umanità che loro hanno ridotto le madri a quel punto.”
Profumi e sentori di altri grandi romanzi riemergevano alla mia memoria mentre sfogliavo “tutto scorre”. I contadini di “Grapes of wrath”, l’indicibile crudeltà di “Mattatoio V” e la “Pelle” di Malaparte.
Grossman è capace di pronunciare quelle parole, di scrivere le storie che l’uomo non vorrebbe scrivere. Di porsi sul piedistallo dell’osservatore. Si prenda ancora dal testo, come esempio, la tragedia delle madri: “Tutte queste donne – pure o cadute, esauste o con sette spiriti – vivevano nel mondo della speranza. Una speranza ora sveglia, ora sopita, ma che non le abbandonava mai. Anche Masa sperava – d’una speranza tormentosa; ma la speranza permette di respirare anche quando tormenta. Dopo il regime duro dell’inverno siberiano, lungo come una condanna al lager, era arrivata una pallida primavera, e Masa era stata mandata, insieme ad altre due donne, a riparare la strada che portava alla «cittadina socialista» dove abitavano, in villette di legno, i comandanti del lager e il personale salariato. Da lontano le era parso di scorgere, alle alte finestre, le sue tendine di quando abitava sull’Arbat, e la sagoma del ficus. Vide una fanciullina con la cartella di scuola salire i gradini del ballatoio esterno ed entrare nella casa del dirigente amministrativo del lager a regime duro. La guardia di scorta aveva detto: «Ehi tu, sei venuta a vedere il cinema?». Quando poi, alla luce del crepuscolo, tornarono al lager, verso il deposito della segheria, la radio di Magadan prese a suonare. Masa e le due donne che con lei si trascinavano, scalpicciando nel fango, misero giù le pale e si fermarono. Sullo sfondo del cielo scolorito si rizzavano le torri di vedetta, e in esse, come mosconi intirizziti, stavano le sentinelle nei loro neri pellicciotti a vita, mentre le tozze baracche sembravano essere spuntate dalla terra, incerte se rientrarvi nuovamente. La musica non era triste, era una musica allegra, da ballo, e Masa cominciò a piangere, ascoltandola, come le pareva di non avere mai pianto in vita sua. Anche le due donne al suo fianco – una di loro era una dekulakizzata, la seconda invece era una di Leningrado, anziana, con gli occhiali dalle lenti screpolate – piangevano, ritte accanto a Masa. E sembrava che le screpolature sulle lenti degli occhiali fossero segni lasciati dalle lacrime. L’uomo di scorta rimase interdetto: le detenute piangevano di rado, i loro cuori erano rappresi dal gelo, come la tundra. Con una spinta alla schiena l’uomo le sollecitò: «Basta adesso, piantatela, andate a farvi fottere, donnacce, ve lo chiedo come un favore». Seguitava a guardarsi attorno, mai gli sarebbe venuto in mente che le donne piangevano a causa della radio. Masa stessa, del resto, non capiva perché il suo cuore si fosse improvvisamente riempito d’angoscia e disperazione; come se tutto ciò che era accaduto nella sua vita si fosse unito in un solo groppo: l’amore della mamma, l’abito di lana a quadretti che le stava così bene, Andrjusa, i bei versi, il grugno del giudice istruttore, l’aurora con l’improvviso scintillio del sole sul mare azzurro, a Kelasuri, vicino a Suchum, il chiacchiericcio di Jul’ka, Semisotov, le vecchie monache, gli sfrenati litigi delle donneuomo, l’angoscia che le veniva dal fatto che la caposquadra, socchiudendo gli occhi, aveva preso a fissare lo sguardo su Masa, allo stesso modo con cui la guardava Semisotov. Perché mai, d’un tratto, al suono allegro di quella musica da ballo ella aveva cominciato a sentire così intensamente sulla pelle la sporcizia della camicia, e le scarpe pesanti come rozzi ferri da stiro, il puzzo di sudore della giubba; perché all’improvviso, fendendole il cuore come un rasoio, quella domanda: perché, perché era capitato a lei, Masa, perché proprio a lei quel freddo gelido, quella depravazione spirituale, quella progressiva accettazione del suo destino di ergastolana? La speranza, che sempre le era gravata sul cuore con il suo vivo peso, era scomparsa, morta. Al gaio suono di quella musica da ballo Masa aveva perduto per sempre la speranza di rivedere Julja, smarrita tra gli orfanotrofi, gli istituti per l’infanzia abbandonata, le colonie, gli asili, nell’immensa Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Al gaio suono di quella musica ballavano i ragazzi, nelle case dello studente e nei club studenteschi. E Masa capì che suo marito non si trovava in nessun posto, che era stato fucilato, e che lei non l’avrebbe rivisto mai più.”
Ed è un modo questo, un processo di scoprire la verità, ho capito infine. Non di enunciarla. Ecco la grande forza di questo romanzo. La scoperta Celiniana dell’uomo come essere abietto. “ La gente maltrattata – oppressa dalla violenza, dalla penuria di cibo, dall’insufficienza di riscaldamento e di tabacco, tramutata in «sciacalli» dei lager, con lo sguardo errante alla ricerca di croste di pane e di cicche sbavate – risvegliava la sua compassione. La gente del lager aiutava ora Ivan Grigor’evič a capire gli uomini in libertà. Egli vedeva, in libertà, la stessa miserevole debolezza e crudeltà, l’avidità e la paura, esattamente come nelle baracche dei lager. La gente era fatta tutta allo stesso modo, e lui ne aveva compassione.”
E proprio come riporta questo paragrafo, forse, il grande senso del libro è la scoperta della libertà. Un ode, un inno, un disperato richiamo sordo alla libertà. “Il progresso è essenzialmente progresso della libertà umana. Giacché la vita stessa è libertà, l’evoluzione della vita è evoluzione della libertà”. Così chiosa l’autore. Quanto di più alto? Quanto di più vero? Quanto di più labile? Un concetto così sfuggevole da sviluppare quel senso di urgenza per la parola, per provare inutilmente a dire ciò che si ostina a risultare indicibile. “Niente è rimasto. Dov’è andata a finire quella vita? Dove quelle orribili sofferenze? Possibile che non sia rimasto nulla? Possibile che nessuno paghi per tutto ciò? Ma allora tutto sarà dimenticato, senza una parola? L’erba ha ricoperto tutto.”
Tutto scorre, insomma, e il lavoro dell’intellettuale è anche quello di provare a fermare con le mani questo implacabile fiume.