Vladimir Nabokov – Invito a una decapitazione


«Oggi è l’ottavo giorno,» (scrisse Cincinnatus con la matita, che ormai si era accorciata per più di un terzo della lunghezza) «e non solo sono ancora vivo, vale a dire che la sfera del mio io ancora limita ed eclissa la mia esistenza, ma, come qualsiasi altro mortale, non conosco l’ora della mia morte e posso applicare a me stesso una formula che vale per tutti: la probabilità di un futuro è inversamente proporzionale alla sua teorica distanza temporale. Naturalmente, nel mio caso, la prudenza richiede di pensare in termini numerici molto piccoli, ma va tutto bene, va tutto bene – sono vivo. Ho avuto una sensazione strana la notte scorsa, e non era la prima volta: mi sto togliendo di dosso uno strato dopo l’altro, e infine… non posso descriverlo, questo, ma lo so: attraverso il processo di graduale spoliazione raggiungo il punto finale, indivisibile, saldo, sfolgorante e questo punto dice: io sono!

DUE PAROLE

Da un romanzo che si pone d’acchito fra l’angoscioso e claustrofobico mondo kafkiano dell’assurdo ed il fatale e lucido momento de “lo straniero” di Camus, pensavo di avere il diritto di attendermi molto, tanto. Ma così non è stato. Siamo, anzi, a mio modestissimo parere, a distanze siderali dal vero capolavoro di Nabokov. Si badi, la tensione e il surrealismo del romanzo presentano comunque un testo significativo e degno di lettura, per lo meno per essere posti di fronte alla certezza della vita, ovvero, a quel tragitto che (per decisione altrui o meno) si impone come finito. Il palcoscenico dell’assurdo orchestrato dall’autore è, però, troppo vasto e perde in incisività. (Si pensi a quanto i due riferimenti che citavo in incipit siano invece lapidari e incisivi). Il centro psicologico, il corpo portante morale del racconto è l’imposizione (o auto imposizione, in questo caso ironicamente ignota) del momento della propria fine. La comprensione della nostra natura finita, in termini temporali, esercita sul protagonista un effetto anestetizzante. Cincinnatus esercita un sano distacco morale dalla realtà, una lontananza che infatti non lo spinge nemmeno alla rivolta. La verità, che non vi viene dato sapere, vive al di fuori della vicenda, in una dimensione parallela che non è –chiaramente- nemmeno a disposizione della legge, o dell’ordine costituito. Cincinnatus è completamente succube passivo delle vicissitudini e degli altri coprotagonisti. La vita, così come la realtà, così come i fatti, non sembrano essere in suo possesso. Egli è un fantoccio (sebbene pensante) nelle mani del destino auto costruito e auto inferto. In questo teatro dell’assurdo, dove la prigione viene mostrata come un palco, un circo, un’invenzione cerebrale, Cincinnatus sembra l’unico lucido (ed è paradossale che lo sia nella sua più pura follia, se intendiamo il racconto come il lungo prodotto di un onirico pensiero). Si sottolinea insomma l’alienazione, l’indifferenza e la distanza della società, così come del prossimo o del relativo più vicino. Più volte Marthe, la fedifraga moglie, dimostra totale indifferenza per il condannato, insinuando preoccupazione solo e soltanto quando la vicenda del marito arriva a toccare lei. Tutti gli altri personaggi si muovono di conseguenza. Dal direttore del circo-prigione, all’avvocato, al secondino. Qual è allora il grave reato che onta Cincinnatus? Si fanno sporadici riferimenti a una vaga condotta amorale, alla vergogna più gretta e bassa, all’oscenità. Eppure la colpa principale sembra molto più limpida e immediata: la totale anestesia d’intenti dell’uomo moderno.