Baku 11 Agosto

Petrolio. La prima cosa da fare quando si arriva in un paese nuovo è mettere fuori il naso dalla porta e odorare l’aria. Si capiscono un sacco di cose dal puzzo di un posto. L’Inghilterra, ad esempio, sa di piedi sudati di sidro, e New York di pipì di gatto, Singapore di durian, Delhi di carne putrefatta e così via. Baku, avrete capito, sa di petrolio. A dire il vero tutto a Baku elogia il petrolio. Le sue bandiere cangianti aggrappate, stanche, ai pennoni più alti del mondo brillano oleose solleticate dalla flebile brezza che arriva da un mare opaco. La canicola all’orizzonte non confonde la vista come nei western di Hollywood perché il petrolio nell’aria brucia iridescente. Gli uomini tengono i soldi in tasca rigorosamente piegati in due. Al momento di pagare, li estraggono e li sfogliano viscosi e, se si presta attenzione, si può notare come anche le fresche banconote dei bancomat siano già state costrette e ammaestrate a quella posizione di libro sacro. Si vede che Baku è una città cresciuta in fretta sopra la propria inaudita ricchezza. I giovanotti prediligono la camicia bianca, rigorosamente accompagnata da una canottiera della salute. Le strade si riempiono di macchine rombanti o vecchi trabiccoli post sovietici. La classe media sembra tagliata fuori e i restauri sono fastosi, comprensibilmente pacchiani. L’impressione iniziale che ne scaturisce è un senso di alienazione che accosterei soltanto al desiderio di bere una dissetante bibita al petrolio. Addentrandosi nei suoi meandri, però, la città cambia. La ricchezza ed il lusso senza cultura non sono ancora riusciti ad annientare quella meravigliosa malattia chiamata povertà. Ci avviamo sulla via della nuova Baku con un piccolo traghettatore. Si chiama Ramis, ha undici anni, parla un buon inglese ed è brizzolato. Ne facciamo la conoscenza per caso, fermandoci a comprare delle bottigliette d’acqua senza petrolio nel bar del fratello. Si offre di mostrarci un po’ di città vecchia. Gli diamo una mancia con la quale anche lui, un giorno, potrà aprire la sua pompa di estrazione. Sorride, ringrazia, un piccolo Kasparov dico io, e ci lascia perdere nei vicoli del centro storico. Rispondiamo senza capire, ma salutiamo sempre educati. “Salam! Salam!” dice ogni due per tre il Mattia Leonardi, “yes, yes” il Matteo Angelino e, ci crediate o no, azzecca alla grande. Finiamo in un bar poco fuori quel cerchio di finzione cui già accennavo nel primo articolo. Suonano “innamorati” di Toto Cutugno, ma la birra media costa un euro solo. E’ confortante vedere che anche qui le cose si possano capire per opposti, per contraddizioni. Osserviamo il finto oro sfarzoso dei grattacieli, finzione, inutilità, ci tuffiamo in un bazar puzzolento, verace. La gente ci sorride, siamo estranei, fastidiosi a noi stessi, con le nostre macchine fotografiche e le lenti scure, “Cusce” dicono, “assaggia” e fanno il gesto del mangiare. Prendo una mora, l’annuso. Il profumo del petrolio non si sente più.

-Postilla- Prima di uscire a cena, avevo già redatto il diario, pronto da pubblicare con l’ultima revisione. Rientriamo però in camera con una cosa ancora da raccontare. Trovato un ristorante in centro, accomodati, il titolare ci avvisa che di lì a poco sarebbe passato il “prime minister of Italy” ad assaggiare il pane. Figurati! pensiamo. Il pane! E scettici attendiamo più di un’ora fuori dal locale finché una carovana di fotografi e macchinette stile campo di golf non inizia a scendere la strada. Mentre il PresDelCons entra a mangiucchiare la deliziosa focaccia a forno azero, la delegazione si accorge del nostro italiano perfetto. “E voi cosa ci fate qui? Siete venuti per il gas o per il petrolio?” “Siamo turisti” “Turisti?” “Turisti”. Il presidente Letta viene chiamato fuori, “venga, ci sono tre italiani qui in vacanza”. Un po’ di Ilarità, guarda te sti coglioncelli. Letta ci saluta cordialmente, ci stringe la mano e fa due chiacchiere con noi. E’ gentile, pare umano, sa persino dove sono Valenza e Bellinzago, ha la moglie di Novara, dice. Anche la sua delegazione sembra entusiasmata della nostra presenza. “Allora arrivederla eh, Presidente”. Gli altri ci invitano in ambasciata domani mattina per registrarci, ma non so se ci andiamo. Siamo diretti a Qubostan e non sappiamo ancora bene dove sia la fermata del bus.

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